Che bellino questo aeroporto! Sono le 8 di sera e la temperatura si aggira attorno ai 25º ventilati e umidi. Aspettiamo Jaime, il couch che senza esitazione ha risposto ad Ale solo qualche secondo dopo aver ricevuto il suo messaggio.
Ci accoglie un colombiano, finalmente morenito, con un fuoristrada suzuki che fa dei rumori strani, ma è così bohémien che è proprio quello che ci vuole.
Lui non vive a Santa Marta, ma a Rodadero, una zona di mare ad una 15ina di minuti dal super centro di Santa Marta.
Ale è contentissima perché non deve sforzarsi a trovare argomenti di cui parlare, fa tutto lui. È appena tornato da un viaggio con i suoi amici d’infanzia, una di quelle cose che mi fa sognare il mio rientro in Italia ed una settimana in qualsiasi posto con le ragazze e Filippo. Beh sono andati a passare l’epifania in un paese sulla serra nevada dove vivono alcuni suoi parenti, una zona per niente turistica ed estremamente indigena dove a qualche km di macchina si può raggiungere un paesino incredibilmente primitivo con leggi, usi e costumi propri, con una propria prigione, dove puniscono fino alla redenzione i ladri e traditori, in cui si sentono responsabili dei danni che l’uomo fa alla natura quindi un giorno sì e l’altro pure chiedono perdono, celebrano l’acqua, la terra, il cielo, gli animali e secondo me anche la marijuana. Ne parla entusiasta, chiedendosi come siano finiti a parlare dell’ultimo posto del mondo, invaso dal cattolicesimo, finché non sono riusciti a cacciare pure i cristiani.
Nel mentre la brezza di mare entra dal finestrino, i suoi denti sono estremamente bianchi e non riesco a non fissarli, ma il cambio mi gratta sotto ai piedi e mi distrae, respiro profondo e dietro al Serro si apre la città, illuminata, sotto quei piedi tremolanti. Mi mancava l’aria di mare.
Andiamo subito a cena nel centro di Santa Marta, qui sono come gli spagnoli: se la festività cade nel weekend la recuperano il lunedì. È l’8 di gennaio e stiamo recuperando il 6, infatti i vicoletti più antichi della Colombia sono pieni di gente, giovani, profumi, artisti di strada, umidità e argentini. Figa sempre argentini da tutte le parti. Per iniziare con il piede storto ci pappiamo una bella pizza, Argentina per l’appunto, ma mi passerà velocemente di mente solo sentendo il rumore del mare nell’atrio della torre in cui dormiremo. Lo sento, è vicino, ma non si vede, finché non mi affaccio alla finestra e capisco che è proprio sotto di noi, davanti, tutto il nero è mare e ancora mare finché non si fonde con il cielo.
Chissà che vista ci sarà domattina.
Ho iniziato ad appassionarmi alla lettura un’estate di una decina di anni fa, andai in libreria con la nonna e mi lasciai trascinare dai titoli romantici di una collana colorata tra cui TVUKDB e cose simili. Mamma mi aveva comprato un grande classico, per partire in quarta, ma proprio non mi andava giù e a tutt’oggi risiede stantio nella libreria. Io ho iniziato ad apprezzare il rito della lettura con i libri di Valentina F, che altro non è che un Fabio Volo in versione colorata per dodicenni. Era il mio periodo romanzi per ragazze e mi chiudevo nella camera degli ospiti ore ed ore, mentre mamma puliva, prima di andare in spiaggia. Ne leggevo uno al giorno e facevo spendere un sacco di soldi a mamma, ma li volevo tutti li, da guardare, toccare, a volte sottolineare rigorosamente. A matita, proprio come faceva mamma sui suoi.
Era l’inizio, con tutta la leggerezza di una ragazzina di 12 anni che sognava in grande, di un vero e proprio amore per la lettura ed ancor di più per tutto quello che vi sta dentro e attorno. L’odore dell’inchiostro, la rugosità delle pagine, la collezione di segnalibri, la morbidezza della poltrona, l’eleganza della libreria piena, il fascino dei tour delle biblioteche, la serenità delle librerie, i dibattiti a fine capitolo, la corrente che mi spinge a continuare a leggere e la mia testardaggine, la voglia di assaporare, che duri il più a lungo possibile un bel libro. Dal periodo romanzi per ragazzi sono passata direttamente a quello dei gialli, intenso, che non lasciava scampo nemmeno ai controcorrente: i gialli si leggono in una notte, si fa after insieme agli scrittori nordici, ci si sveglia quando il tono ci cade in faccia ormai all’alba e ci si incazza, pesantemente, quando il film non rende nemmeno lontanamente giustizia al libro. Questo con tutti i generi in effetti. Suona così sofisticato “no guarda io ho letto il libro ed il film è una porcheria a confronto”. Che sia bello o brutto, veramente bello è veramente brutto, un lettore non sarà mai soddisfatto di una rappresentazione cinematografica di un libro che ha amato, accarezzato, annusato, assaporato. Perché?
Un libro è un compagno di vita, per ore, per giorni, per viaggi, per intere settimane quando non si ha tempo. Un libro, senza bisogno d’immagini, suoni e luci soffuse, non solo ti entra dentro, come potrebbe fare un film, ma esce completamente da te. Quello che ti rimane di un libro è un mix di ciò che hai letto, di quello che hai provato, dei visi che hai immaginato, dei luoghi che hai creato. Non è nulla d’imposto, è solo leggermente delimitato da alcune descrizioni più o meno accurate, ma non è vincolato a nessuno, se non a te. Sono i suoi ricordi, i tuoi sogni, la tua fantasia a plasmarlo nella tua mente e poi ad imprimerlo come un ricordo realmente vissuto sulla tua pelle.
Il presente, il passato ed il futuro s’intrecciano quando leggi, quello che stai vivendo entra dentro al libro, credo sia per questo che alcuni periodi della vita ci spingono verso determinati generi, determinate letture. Così Ornby letto in un volo per Londra ha un sapore, letto ad Alessandria in un negozio di vinili ne ha un altro.
Con i libri c’inventiamo, lavoriamo, ci sforziamo, mentre con i film è tutto un gioco di associazioni, immedesimazione, analisi, viene dallo schermo verso di te e meno da te verso lo schermo.
Un film è come la scopata di una notte, due o tre, un libro è un paziente e fedele, compagno di vita. Le serie hanno lo stesso obiettivo, la stessa voglia di accompagnarci, ma facendoci sforzare meno.
Uno dei primi libri che ho preso in mano, uno di quella collana colorata, era di Paola Zannoner, probablemente cugina della F. “A piedi nudi a cuore aperto”. Sorvolando sulla splendida trama romantica, d’intestazione e rispetto tra popolazioni diverse, quello che mi è sempre rimasto impresso è il titolo.
E mi ritorna in mente, anche qui, soprattutto qui, a Santa Marta.
Qui, la prima mattina, la luce entrava prorompente dalle fessure delle tende, rimbalzando sulle pareti bianche ed illuminando a giorno la stanza. Ale era già andata a comprare la colazione e l’unico rumore che si sentiva in casa, oltre al tintinnio di piatti e posate, era quello del mare. Non c’era tempo per mettere le ciabatte, dovevo andare assolutamente a vedere la vista. Il marmo della camera era a perfetta temperatura cagarella, quello del salone invece piacevole. Oltre l’amaca colorata appesa in terrazzo solo azzurro. Azzurro mare, azzurro cielo, con qualche difficoltà per capire dove iniziasse uno e dove finisse l’altro, talmente era azzurro.
In quel momento, in quel preciso momento, ho deciso che Santa Marta non sarebbe stato un luogo di passaggio, che avevo bisogno di ricaricare le pile e che mi trovavo esattamente nel posto giusto, al momento giusto.
Siamo andate al Tayrona. Dopo una settimana passata a ripeterci “ma chi ce lo fa fare di camminare al caldo per andare al parco?”. Dopo le 4 ore di camminata a Minca, ci eravamo ripromesse di lasciar perdere il trekking, ma la curiosità ha preso il sopravvento e l’idea di poterci arrivare in barca ci ha convinte totalmente. Sveglia ore 7.00, Andres si aggrega, partiamo per Taganga. Passiamo a prendere Clao e alle 9.00 siamo già in bolla, peccato che la lancha partisse alle 10.30, che da nuovo anno siano entrate in vigore le nuove tariffe ovviamente aumentate e che abbiamo piazzato una bella taquilla per chi arriva con i pirati. Insomma, come direbbe Andrea: Caporetto, scansati lesta.
La barchetta ha 2 motori e 26 posti a sedere, mettiamo gli zaini a prua, tengo solo il telefono e gli occhiali da sole, sai, con una bella navigata potrebbero servire. Nemmeno il tempo di agganciarli al giubbotto di salvataggio che mi rendo conto della grandissima idiozia che mi affligge. Siamo su una barchetta di merda, stiamo per lasciare la baia, l’oceano, per quanto gli piaccia chiamarlo mare dei Caraibi, è più mosso dei miei capelli dopo una giornata al mare ed iniziamo ad imbarcare acqua.
Uno schizzo, due, finché non riesco più nemmeno a tenere gli occhi aperti. Infilo il telefono nella custodia di stoffa degli occhiali, tentando di proteggerlo. Telefono con il quale avevo fatto ben 4 indispensabili foto di merda. La custodia sotto la giacchetta, sotto l’ascella, con una ciabatta davanti. Passo l’altra ciabatta ad Ale, a cui a quanto pare ho attaccato questa malattia delle fotografie, lei sceglie un’atra tecnica: posiziona il telefono sotto le chiappe del passeggero che ha di fronte, con lo schermo verso la sedia e l’acqua che teoricamente scivola sulla cover. Mentre i compagni di viaggio si spaventano, rischiano il vomito, bevono acqua salata e cercano di proteggersi con tutto quello che hanno – le mani – io non riesco a fare a meno di ridere. Recito il testamento del mio telefono, mi maledico un po’ per aver scelto questa imbarcazione e non essere andata a piedi come tutti i normali esseri viventi turisti della zona. Effettivamente la situazione stava sfiorando il ridicolo, la mia posizione assurda, l’acqua ovunque, Gardaland non sarebbe mai più stato lo stesso, iniziavo veramente a divertirmi.
Ci fermiamo per fare rifornimento e salto in testa ai vari passeggeri, i telefoni andavano portati in salvo, ravano, li avvolgo nell’asciugamano e torno di corsa al mio posto. Come se non bastasse mi rendo conto di 3 cose:
1. Ho dimenticato il giubbotto di salvataggio a prua
2. Non ho preso gli occhialini
3. Ho una canottiera bianco, senza reggiseno, sono totalmente bagnata e senza giubbotto di salvataggio a mo di gilet.
Sarebbe potuta andare peggio. Da quel momento il divertimento è stato puro e senza preoccupazioni. Atlantideeeeeee!
Vediamo la riva! Una spiaggia vergine e deserta, sabbia bianca, acqua trasparente, verde sullo sfondo. Come avete sempre immaginato l’Eden? Io così. Natura selvaggia che incontra la sabbia e poi il mare, esattamente così.
Sulla sabbia nessuna cartaccia, niente di fastidioso, tranne la taquilla che ci chiede la bellezza di 55’000$, che riusciamo comunque a far diventare 35’000$ imbucando Andres e Claoh. Ci spostiamo a Cabo San Juan.
Lo stomaco pieno, dopo un bel pisolino, c’incamminiamo verso un’altra spiaggia e poi nella giungla. Incrociamo alcuni indigeni lungo il percorso, vestono di cotone bianco, chi più, chi meno, scalzi o con ciabattine fatte a mano, sembrano proprio degli indiani. Vivono nel parco, mantengono l’equilibrio tra natura e umanità. Da qualche anno, visto il grande boom turistico, chiedono di chiudere il parco per 1 mese, per riavvicinare la flora e la fauna, per espiare i nostri peccati, in quel mese, che sta per arrivare, scendono dalla Sierra tutte le specie animali, indisturbate, persino i giaguari e si riappropriano dei loro spazi.
Li guardo negli occhi, le bambine soprattutto, mi sembra una cosa così lontana da noi, dalla nostra Europa moderna. Mi soffermo a pensare a quali siano le nostre tribù indigene. I greci, i romani sarebbero il corrispettivo dei arhuacos (o ikas), wiwas, kogis e kankuamos? Non ne restano però, si sono evoluti tutti (o quasi). È qualcosa di unico.
Non riesco a pensare ad altro mentre diventiamo come Moogly per 3 ore di camminata nella selva, sudati, nell’umidità assoluta, ma vivi, vivissimi. Non so se il tutto sembrasse più l’isola di Jurassic Park, il libro della giungla o appunto la mia idea di Eden, abitato però da indigeni con buffi cappellini Bianchi che vivono in sintonia con la natura. Chissà come si lavano… Forse a questo è meglio non pensare.
Torneremo davvero nei posti in cui siamo stati felici? “Torneremo davvero nei posti in cui siamo stati bene? Perché ho creato un mondo in un paesino sulla costa colombiana e pensare di lasciare per sempre tutto questo equilibrio e queste persone, mi fa impazzire.”
Ho scritto questo tweet sabato, era un pensiero che mi martellava la testa mentre il sole tramontava come di consueto davanti alla piscina, che era più piena del solito. Sabato pomeriggio in piscina con gli amici, qualche pacchetto di patatine, musica e le solite diatribe sul cibo della propria nazione. Mi sono appoggiata alla balconata e, senza occhiali, con la vista un poco appannata, la pelle d’oca per quel filino di vento sulla schiena bagnata, ho pensato che non avrei davvero voluto che finisse. Eravamo qui solo da 6 giorni, che sono poi diventati 10 e sembravano molti di più. Sembrava un mese, sembrava di essere tornati a casa per le vacanze, come Andres, come Caro, si respirava quella serenità che solo Santa Margherita riesce a darmi. Sarà il mare, il caldo e la sveglia solare. Saranno i tavolini fuori dai bar, in piazza, le vie pedonali, il mercato, il costume sempre sotto ai vestiti, ma è tutto troppo famigliare e non posso crederci se mi dicono che domani andiamo via. Andiamo via, perché non possiamo fermarci qui. O meglio, potremmo, ma c’è ancora tanto da vedere e finalmente ieri ci siamo decise a comprare un volo per Lima, per quel Perù che ho tanto sognato tutta la vita e che ora che sono a Santa Marta potrebbe anche aspettare.
Un nuvolone grande ha coperto il sole che a momenti rispunterà per poi tuffarsi in mare, per l’ultima volta, davanti ai miei occhi. Ho già voglia di piangere solo a scriverlo, ad immaginarlo. Sistemerò la sedia di metallo – madre mia quanto rumore fanno le sedie di metallo?! – tornerò in casa, lancerò le ciabatte e dondolerò sull’amaca, finché non fa buio, come ogni sera da 10 giorni a questa parte. Una parte di routine che non mi stancherebbe mai. Essere troppo rilassata si, vedere Jaime lavorare mi fa solo venir voglia d’inventare nuovi business, di programmare e progettare qualcosa di nuovo una volta rientrata in patria, di fare i conti e pensare a quanti investimenti intelligenti potrei fare proprio qui.
Non sto cercando una scusa per tornare, ancora prima di essermene andata, ma è veramente una potenziale miniera d’oro. (Non vi dirò i numeri per non farmi rubare le idee, ma se siete ispirati da investimenti immobiliari scrivetemi)
Ok forse sto anche cercando una scusa per tornare, è che mi sembra folle lasciare tutto questo e non aver ben chiaro quando ci ritornerò. Dipende da me, certo, come vado a Santa ogni estate potrei anche tornare qui una settimanina o due, appena ho tempo, tanto qui è sempre estate. Si può fare davvero? È fattibile? E i soldi? E il tempo? Di quanti altri posti m’innamorerò in questo modo? Quanti altri posti mi faranno sentire come Santa Margherita, come Siviglia, come Santa Marta? Quando una persona si sente “così” cosa deve fare? E per così intendo completa, viva, allegra, entusiasta, ottimista, piena di voglia di fare, con il sorriso in viso già dal mattino, già dalla colazione sul terrazzo, cosa bisogna fare? Valigie e andare a vivere proprio dentro a questa perfezione? Prenderla di petto?
Quando mamma diceva di voler andare a vivere a Santa io ero sempre contraria, d’inverno è triste e sarebbe diventata troppo monotona, è così preziosa perché è una perla, un momento unico che ci concediamo ogni anno, qualcosa di lontano dalla routine. Se mangiassimo focaccia tutti i giorni sarebbe ancora così buona? Sicuramente sarei un bue, ma sarebbe ancora così speciale?
Iniziò a pensare che… Si, sarebbe davvero così orgasmatica ogni cazzo di mattina, che ho sempre temuto la routine perché non avevo ancora trovato la mia, quella che mi faceva sentire completa. E poi a Santa esistono le stagioni, che possono cambiare le carte in tavola, a Siviglia e qui decisamente meno.
Quindi?
Che fare?
Quanti altri tramonti dovrò aspettare per decidere in che posto stare? Davvero devo decidere?
Grazie, per ora, Santa Marta.
Grazie Alessia, per esserti fermata, per aver dato adito ai miei capricci, per essertela goduta insieme a me. Grazie Andres, Claoh, Caro, Majo, Daniel, Ross, grazie anche ai portieri, a casa pargo, al muesli del supermercato, agli indigeni, ai ragazzi delle borse, al Tayrona e a te, Jaime. Grazie per aver dormito sull’amaca mentre noi ci spaparanzavamo nel letto, per le ore di pianoforte, per la pazienza, l’ospitalità, le attenzioni, per la condivisione, le serenate, colazioni, pranzi e cene, gite, serate e film, per non aver battuto ciglio, forse solo storto il naso, quando era ora di salutarsi, non sono cose da poco per uno scorpione.
Grazie per tutti i “sembra che siate qui da molto di più, sembrate Samarie, due di noi” perché è esattamente così che ci siamo sentite, a casa.
Questa volta si, ho proprio voglia di ringraziare. Mi mancherà tutto, più che qualsiasi altro posto visitato fin ora, più che qualsiasi altra persona conosciuta. Qui, ora, adesso, mentre sento “pf pf” dal balcone di sopra, mentre il sole si libera dalle nuvole, mentre ci tuffiamo, in mare, per l’ultima volta.
Cule vaina rara la vida.