L’onda lunga della leggerezza – My Times of India n. 6
Ha smesso di piovere, una rondinella vola sopra la mia testa, sotto un cielo ancora nuvoloso. Le luci della città si riflettono nel lago, che scontrandosi sui gath produce il suono di una bacinella d’acqua, scossa velocemente.
3 nuovi amici mi aspettano a tavola, in uno dei ristoranti più cari che abbia avuto il piacere di testare qui in India: il mio piatto costa 8€, ma la vista è impagabile.
A sfioro sul lago, con una distesa di diverse tonalità di nero e grigio, intervallata da luci calde.
È la mia penultima sera in India e me ne rendo conto solo ora. Domani volo su Delhi, una notte, un giorno e nulla più. La magia svanirà e di lei resterà per un mese l’henné sulla mi mano destra e, spero, la leggerezza che questa nazione mi ha regalato. La sua intensità travolgente, a volte soffocante, mi ha costretta a lasciarmi andare, a seguire l’onda, a lasciarmi trasportare. Mi sono ritrovata, in mezzo ad una strada sabbiosa e umida, a pensare “ok, oggi va così, magari domami questa cosa la faccio diversamente”. Mi ha portata a vivere il presente, a sfruttarlo, a goderlo, ad afferrarlo. Mi ha aiutato ad accettare il passato, a custodirlo, ad accarezzarlo, a non rimpiangerlo. Mi ha illuminata sul futuro, un’eventualità imprevedibile e malleabile sulla quale soffermarsi a tempo debito.
L’onda lunga della leggerezza, questo mi auguro di poter continuare a surfare nei mesi a venire. Mesi che saranno un’avventura e mi separano dalla successiva. Vita.
Vedo. Un poliziotto che da una multa ad un’auto in divieto di sosta. Cartelli no parking con adv tutti uguali per 2km. Una macchina con il logo Nike su ogni finestrino. La coda di un cavallo che spunta dalla porta di una casa. Elettricisti arrampicati sui pali della luce. Operai a piedi nudi che caricano sacchi di sabbia sulle spalle. Artisti che dalle macerie creano statuette di divinità varie. Mucche adagiate sullo spartitraffico. Signore equilibriste con ceste in vimini giganti sulla testa. Una catena che si chiama Rominus pizza. Bambino, papà, bambina, mamma, tutti e 4 in moto senza casco. Una rotonda verdissima. Due signore in sari scintillanti che rovistano nella spazzatura a bordo strada.
20 televisioni caricati su una bicicletta trainata a anno. Carretti del cibo. Accampamenti sotto la sopraelevata. Un uomo che si lava la faccia con l’acqua della bottiglia. Furgoni decorati a mano. Militari. Polizia. Casco sullo specchietto retrovisore, in testa il cappellino. Filo spinato. Casco sulla testa. Bandiere tricolore. Il ventilatore sopra la testa del mio Uber. Un tempio. Pullman con la porta aperta, gomiti che spuntano dai finestrini. Pezzi di sari che sventolano fuori dai tuc tuc. Autobus con la lamiera deformata. Sorpassiamo a destra. L’asfalto perfetto, ma senza righe delle corsie. Bandiera tricolore sul cruscotto della macchina, sul finestrino, sul vetro, disegnata sul paraurti. Donne sedute a terra, nella sabbia, che sistemano il marciapiede, a mani nude. Linea per persone ipovedenti, la prima. Pietre per il cordolo della strada traportate nel montacarichi di una bicicletta. I cavalletti più comodi della storia. Cartelli incredibili che recitano “zona ad alto rischio di incidenti, attenzione”, “sorpassare a destra”. Transenne gialle con le rotelle. Ingresso dell’aeroporto. Terminal 3. Fammi fare un altro giro per favore. Non ci credo che è finita.
Mi torna in mente la prima videochiamata con Sara, i consigli di viaggio scritto sul mio excel, i pin inseriti nella mappa. Ripenso ai miei occhi sognanti, quando, raggomitolata sul divano senape, lèggevo Shantaram ed immaginavo il sapore di questo paese. Ricordo le risposte preoccupate di chi ha cercato di dissuadermi dal partire. Più mi parlavano male di questo paese e più avevo voglia di venire, godermela, andare oltre ogni pregiudizio e fargli cambiare idea. Me lo scrive anche Sara “rido quando mi chiedono se l’India è un paese sicuro. Non mi sono mai sentita così al sicuro come in India”. Protette ed accarezzate. Sorvegliate e custodite. Circondata da tante mamme e tanti papà, da tante didi e fratelli, così mi sono sentita. Un po’ rompipalle come i famigliari sanno essere, ma con affetto, sana preoccupazione, naturale gentilezza.
Seduta in prima fila al gate, con un’ora di anticipo rispetto all’orario di apertura presunto dell’imbarco, chiuso gli occhi ed un raggio di sole mi investe le palpebre. Si districa sull’orlo del desk e riesce a penetrare dai vetri spessissimi dell’aeroporto. L’ultimo raggio di sole indiano m’illudo a il viso ed io sono KO. Ho dato il 100% in questo mesetto ed il mio corpo ha deciso di cedere all’ultimo: febbre, mal di testa, diarrea, chi più ne ha più ne metta. Forse complice una cena cara, ma troppo piccante, forse semplicemente è stanco. Sono stanca anche io. Attorno a me ragazzi indocinesi che proprio non riescono a stare zitti e parlano tra di loro, mentre parlano al telefono, mentre videochiamano qualcuno a casa. Dovrei andare a comprare qualche cosa di secco, ma non ho la forza di tornare indietro. Il sole continua a puntarmi e scrivo ad occhi chiusi perché aprirli è faticoso.
23 giorni fa atterravo sulla moquette bordeaux dell’aeroporto di Mumbai, all’alba. Negli amplificatori dell’aereo risuonava una canzone dal testo profetico, che ho riascoltato ogni volta che cambiavo città, come Marta con Terra promessa, ogni volta che torna in Italia. Il ritornello dice “I’m loving this moment, can we stay here forever?”. In questa domanda è racchiuso tutto quello che mi porto a casa dall’India: un abbraccio nei confronti del presente, un sorriso per il passato e leggerezza per il futuro. Il radicamento. Svegliarsi ogni mattina sapendo che posso volare, chiudendo gli occhi e facendo yoga, nei posti in cui sono stata benissimo. Svegliarsi ogni mattina sapendo che la giornata mi riserverà una serie di meravigliose scoperte.
Torno a casa è quello che mi aspetta non ha le sembianze di quello che ho lasciato. Un nuovo lavoro, una nuova quotidianità, nella quale porterò qualche rituale vecchio e ne costruirò di nuovi. Nuove persone, vecchi amici, nuovo amori. Non vedo l’ora ed è per questo che, stranamente, sono contenta di tornare. Forse anche perché finché non diventano puliti io qui non ci voglio vivere, ma soprattutto per quello che mi aspetta a casa. Casa. L’Europa. L’Italia. Il mio continente. Il mio paese. Il primo mondo. Lì dove le donne non hanno una fila esclusiva e possono mostrare le cosce. Lì dove sono tutti di fretta ed i turisti non sono presi in braccio. Lì dove si può viaggiare senza passaporto. Lì dove con 1€ non fai nemmeno colazione. Lì dove puoi sederti su un mezzo pubblico e non rivolgere la parola a nessuno. Lì dove puoi sederti per terra in mezzo alla strada senza dover buttare i pantaloni. Lì dove il mare è pulito. Lì dove il cibo non è piccante. Lì dove l’integrazione ha bisogno di mangiare pastasciutta. Lì dove bianco e nero sono colori dividenti. Lì dove a volte nemmeno gli amici ti fanno entrare in casa. Lì dove le telefonate si fanno con le cuffie. Lì dove la moquette ha perso il suo fascino negli anni 70. Lì dove la classe media la fa da padrone. Lì dove si può bere l’acqua del rubinetto. Lì dove lo yoga è uno sport. Lì dove la meditazione si fa con il timer. Lì dove non ci si concede il tempo di annoiarsi. Lì dove a volte l’apparenza conta più della sostanza. Lì dove quando piove non si mettono le infradito. Lì dove le persone sanno essere sgargianti ed ostili. Lì. Casa. Dove non ci sono gli indiani. Odi et amo.
L’aria di Budapest è fresca, il bus puntuale ed il mio corpo sembra gestire il fuso. La mascherina qui non è obbligatoria, “l’Ungheria è la terza in Europa per % di vaccinati” mi segnala con orgoglio l’autista.
Mi siedo accanto al finestrino aperto, non c’è bisogno dell’aria condizionata. Chiudo gli occhi e respiro, semplicemente. Ora sì che vorrei Eros nelle cuffie, ma ho poca batteria e temo di non poter raggiungere l’ostello se sgarro.
Tagliare la fila dei passaporti, Schengen, l’Europa. Strade deserte, inodore, solo il rumore degli ammortizzatori del nostro bus, silenzio. Affondo nel sedile e sorrido compiaciuta. Mi sento già a casa.