L’arte di automotivarsi: sport, istinti e tisane

Capita anche a voi di soffermarvi su quello che fate ed indagare i motivi per cui state facendo qualcosa, in quel preciso istante? 

Stavo rifacendo il letto e mi sono soffermata a pensare che stavo inserendo il coprimaterasso, prima di bere la tisana, perché fondamentalmente sono una persona che si pone delle obiettivi. Relax solo post dovere. Mi prefiggo dei traguardi, anche piccoli, che cerco sempre di raggiungere, in modo tale da sfidarmi continuamente. 

Riuscire a raggiungere ogni giorno tanti piccoli traguardi mi gratifica al punto da farmi andare a dormire serena, conscia di aver fatto “quello che dovevo fare” in quella giornata. 

È una cosa che faccio per me stessa, per auto motivarmi, per incentivarmi a fare anche quelle piccole cose noiose che nessuno ha voglia di fare, ma vanno fatte. Ergo: non bevo la tisana se prima non ho posizionato le lenzuola pulite, non ceno se prima non mi sono allenata, non vado a giocare se non ho fatto i compiti, non mi alzo da tavola se non ho finito di mangiare. 

Potrebbe sembrare una vita di stenti, una rottura di coglioni infinita, ma è qualcosa che mi viene istintivo: è semplicemente la mia natura. Sono grata a questo mio istinto, a questo mio modo di agire, mi contraddistingue e mi ha portata dove sono oggi. Non ho ben capito dove sia, ma è un punto che mi soddisfa.

A volte potrei bere la mia cazzo di tisana e non rompere i coglioni a me stessa, invece mi riesce più naturale sfidarmi. Per questo mi sta piacendo molto il libro di Murakami, l’Arte di correre: perché anche i corridori sono delle persone che, in solitaria, si sfidano, si motivano a fare sempre meglio, sempre di più. Non corrono contro qualcuno, non corrono contro qualcosa, forse contro se stessi, per se stessi, per obiettivi che essi stessi si sono preposti. Non contro un nemico, ma verso un traguardo.  Il traguardo non è per forza essere primi, i migliori, ma migliorarsi costantemente, arrivare sempre più in là. 

Forse mi sento così affine a lui, perché anche i miei traguardi quotidiani, non sono maratone pazzesche, non scalo l’Everest nel salotto di casa mia, ma perseguo un obiettivo. E anche quando non è chiaro quello macro, ne ho tanti micro. Quando li raggiungo la gratificazione può essere immensa, ma la maggior parte delle volte mi sembra di aver fatto solo il mio dovere. 

È questo quello che viene chiamato senso di responsabilità, quello che si forma con l’età, crescendo? Quindi sono davvero cresciuta? O sono semplicemente così, è la mia natura?

Sono estremamente consapevole che non ci sia una spiegazione sempre a tutto, ma la cerchiamo sempre. Anche quando ci sembrava che tutti gli eventi avessero un’ordine totalmente casuale, giusto alla fine, con “il senno di poi“, un senso lo troviamo comunque. Per esempio, quest’anno ho provato a giocare a calcio. Mi sono messa in testa che finalmente mi sarei potuta cimentare in uno sport che sognavo da quando ero piccola: uno sport di squadra. Ho trovato una squadra splendida, con un mister davvero di cuore che ha provato ad insegnarci che cos’è il calcio, quello vero. Non la tecnica, ma l’attitudine. 

Ci ha riempito la testa di motivazione, la bocca di lezioni di vita e la pancia di patatine. Dopo un paio di mesi ho smesso. Sono caduta con lo scooter, mi sono procurata una brutta distorsione a ginocchio e caviglia ed ho smesso. Mi è sembrata una manna dal cielo quell’incidente: avevo una motivazione validissima per non andare più. Non mi piaceva, non mi sentivo a mio agio, non mi sentivo nel posto giusto eppure mollare non è nel mio vocabolario. Avevo tanti motivi per smettere, ma migliaia per continuare.

Ripensandoci bene, ripensando alle parole del mister, ai suoi incoraggiamenti, mi rendo conto di quanto mi sentissi un lupo solitario nonostante avessi un branco. Un pesce fuor d’acqua, anche quando l’acqua c’era. Insomma, avete capito. Anche quando tutti i lupi o pesci erano apparentemente nella stessa melma, nella stessa boccia, fradici sotto la pioggia o esultanti dopo un rarissimo goal, avevo l’impressione di guardare gli eventi da un’angolazione tutta mia. 

Non mi sentivo parte della squadra. Saremmo potute andare a mangiare insieme, a giocare a burraco, a mettere in dubbio il nostro orientamento sessuale, a fare mille altre cose, ma non avremmo mai potuto vincere un campionato insieme. 

Se penso ad una squadra penso ad una forza che ti trascina. Avete presente quando da bambino giochi al tiro alla fune? Anche quando sei stanco, anche se molli un attimo, se qualcun altro della tua squadra tira, si porta dietro anche te. Ecco questo per me è il calcio, una squadra: una forza invisibile che lega e trascina tutti.

Da qualsiasi parte tirassero però, io non mi muovevo di un millimetro, non ne ero minimamente influenzata, semplicemente non lo sentivo. Uscivo di casa già carica come una molla: sapevo che sarei scesa in campo, che i miei tacchetti avrebbero falcato il prato, avrebbero lasciato un segno nell’erba ed io avrei lasciato il cuore in quella partita. 

Nulla potevano le parole di incoraggiamento del mister, negli spogliatoi. Nulla potevano le manate appiccicaticce delle compagne sulla mia spalla destra, dopo il riscaldamento. Nulla potevano i motti gridati all’unisono prima del fischio d’inizio. 

Io ero lì, ero uscita di casa, di domenica, con la pioggia e pochi gradi, solo per questo avrei dato il 100% di me, con o senza strilli. L’avrei dato per me stessa, per loro, e perché il mio obiettivo era stancarmi finché non mi si offuscava la vista, non vincere la partita. 

Nonostante il risultato tornavo sempre a casa soddisfatta, perché ero a pezzi, perché avevo dato tutto, perché avevo corso come un mulo e non mi ero risparmiata un istante. 

Il talento mancava, certo, per questo motivo non potevo essere io a fare tutta la partita e dal gioco di squadra sarebbe dovuto venire il risultato, che non arrivava. Ci mancavano anni ed anni di allenamento e compensavo a tutte le nostre mancanze con la consapevolezza che l’obiettivo non fosse vincere, ma migliorarsi. Così tornavo comunque a casa gratificata. Il mister era così incazzato, alcune compagne così affrante, ma io no. Sorridente pensavo alla pizza che mi aspettava.

Ho messo in dubbio anche la mia competitività e determinazione per un periodo, ascoltando i miei istinti mi ero resa conto di un grande assente e non me lo spiegavo. Leggendo questo libro mi rendo invece conto di essere un gran compagno di squadra, in potenza. Se avessi lo stesso obiettivo della mia squadra allora sarei davvero un valore aggiunto con la mia determinazione, l’entusiasmo contagioso, la forza di volontà. Il problema è che loro volevano vincere ed io ambivo a partecipare.

Ora lo so. È la mia indole da sportiva solitaria. Non ho avuto modo di rendermi conto di questo slancio mentre praticavo nuoto o sci, perché non era nulla di straordinario: era la norma. Lottare con se stessi, contro la pigrizia, la fame, il freddo, la sete, per una meta. Farlo da soli, guardando chi è davanti a te, senza aspettarsi nulla da lui, era semplicemente quello che andava fatto. Nello sport di squadra invece la meta dovrebbe essere una per tutte, dovremmo guardare tutte nella stessa direzione e tirarci a vicenda come con una fune. Ecco, solo adesso mi sono resa conto che anche nel calcio ho trasportato il mio metodo dello sport individuale. 

Chissà se nel mio modo di affrontare la vita quotidiana sono stata influenzata dal nuoto e dallo sci, o se nel nuoto e nello sci sono stata influenzata dal mio modo di affrontare la vita quotidiana. Non lo saprò mai. 

Non ho scelto io gli sport che ho praticato da bambina, li ha scelti qualcun altro per me e non posso tornare indietro di dieci anni e provare a giocare a calcio. Con le scarpette che sembrano un portachiavi e mia mamma vestita di tutto punto, con un bel foulard di seta, che insulta le altre madri dagli spalti, non è possibile. 

Magari sarebbe emersa un’indole diversa, magari avrei stimolato comportamenti che avrei integrato nella mia personalità ed oggi sarei tutt’altro umano. Non lo so, ma sento che c’è una fortissima correlazione tra il mio atteggiamento nei confronti delle situazioni della vita e come mi approccio allo sport, alla competizione.

Oserei dire che siamo lo sport che pratichiamo con naturalezza, che siamo lo sport che ci fa sentire vivi, a nostro agio, che ci libera.

Vado a riscaldare di nuovo la tisana, ormai è fredda.

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2020
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Possiamo cambiare il mondo dal nostro divano

“Sii tu il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”.

La prima volta avevo letto questa frase in un album di citazioni di film sul profilo Facebook di Michele. Poi ne ho trovato il primissimo portavoce: Ghandi.

È una frase stracitata, abusata, scritta sui muri, ci sono persone che la tatuano addirittura. 

Abbiamo l’occasione proprio oggi di fare quella differenza, di essere noi in prima linea, di essere quel cambiamento. 

Vi rendete conto? Vi basta stare seduti sul divano di casa per poter cambiare positivamente le sorti del mondo. Vi siete mai sentiti così potenti?

Si perché di fronte ad un virus che si espande a macchia d’olio, si può ridere e scherzare, fare humor e non pensare, solo perché ci si sente profondamente impotenti e allora… vale tutto.

Fuori dal sarcasmo però non vale tutto, al di là della battuta abbiamo il potere ed il dovere di non fare minchiate.

Non elenchiamo le mancanze del nostro governo, non soffermiamoci sugli errori, siamo qui, oggi e dobbiamo fermarci. Forse fermeranno 1 regione ed 11 province? Non basta. 

Dopo il fuggi fuggi di notizie e persone di questa sera ciò che si voleva contenere per arginare i danni è stato spostato, chi ha preso un treno stracolmo di persone ha firmato il ricovero della nonnina del piano di sotto del paesello a migliaia di km da Milano. Se il paesello ha un ospedale con una terapia intensiva per la nonna. Altrimenti potrebbe aver firmato la sua condanna a morte. “Tanto muoiono solo i vecchi no?” Quali vecchi? Ma soprattutto, quanti vecchi? Perché in Italia ci sono 13,6 milioni di persone (22,6% del tot) di persone >65 anni e 4 milioni 207 mila (7% del tot) con 80+, sono sacrificabili?

Spostarsi significa creare nuovi focolai. Nuovi focolai significa una quarantena a catena: questa settimana in Lombardia e la prossima in Piemonte e così via, trascinando il problema ed il virus nel tempo e nello spazio.

Fermiamoci.

Non aspettiamo che ce lo ordini qualcun altro. Fermiamoci qui ed ora. Cerchiamo di essere adesso il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo. Non pensiamo al nostro culo, al posto in cui saremmo più comodi a vivere i prossimi 20 giorni, pensiamo a chi vorremmo avere accanto in questo momento e stiamogli lontano. 

Preserviamo l’umanità.

Preserviamoci.

Amiamoci.

Rispettiamoci.

Arriviamo prima dello Stato, anche dove lo Stato non arriva.

Siamo noi, adesso, a cambiare il mondo.

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Odi et amo, Milano

Il papà di Ciotti quando avevo 13/14 anni mi disse che Milano era una giostra. Capii solo un po’ di anni più avanti il significato di tale similitudine. A Milano si deve correre, prendere il ritmo e una volta raggiunta la velocità giusta salire a bordo. Una volta su, tra forze centrifughe, centripete ed inerzia, giri, giri, giri per forza e rimani schiacciato. Sei bloccato, i posti a sedere della metro sotto il culo come un cavallino, tutti i ristoranti da provare prima che chiudano, ti fanno venire quasi la nausea, come nelle tazzine.

Eppure continui, incessantemente, anche quando il cielo è grigio, anche quando non vedi la luce del sole, cerchi sempre il risvolto positivo. “Ah ma tanto stasera…” “Per fortuna questo weekend sono off e vado…”.

Ogni tanto lasci che la testa ti porti verso altri lidi, più colorati, cauti, verso vecchie giostre in cui eri tu il motore, dove con le mani, insieme a chi ti stava accanto, sceglievi la velocità. E pensi a posti tranquilli, calmi, biciclette, mare, Spagna, sud, pizza a 4 euro e affitti a 300. E magari ci vai, ci vai davvero… per un weekend. E quando ci sei ti sforzi, provi ad adattarti al fatto che non prendano la carta per 1 euro, che non abbiano Satispay, ma quando ti fanno la multa per divieto di sosta quello no, non lo accetti e torni in giostra.

Ecco, a volte mi fermo e guardo anche io verso le giostrine vecchie e penso che tutto questo non faccia per me, che serva di più, che ci sia un retrogusto così amaro dietro a tutto questo. Hanno nascosto una montagna di merda dentro al tubo del cavallino o sotto agli ingranaggi della giostra? Prima o poi la tazzina si rovescia e cadiamo tutti? Oppure io prenderò la rincorsa e salterò fuori.

E quando mi fermo, quando leggo “9 minuti di attesa per il prossimo treno”, sento un po’ di vita scivolarmi tra le dita, come la sabbia d’estate. Sento un po’ di tempo rubato alla mia esistenza, perso per strada come i centesimi che non ti fermi a raccogliere. E mi dico “solo un pochino”, “ancora un attimo”, ma come un drogato mi ritrovo poi a pendere ancora dalle sue labbra, a nutrirmi dal suo seno, a guardare solo i pos, anche se in mezzo a quintali di cemento. E finisco per ripetermi “In Italia, se non qui, dove?”

Quest’articolo è visto da fuori, è la prospettiva di un papà che guarda i bambini divertirsi, frenetici ed inconsapevoli, ingordi e frettolosi, al luna park.
Quest’articolo raccoglie tutta la consapevolezza che è anche dentro di noi. Il bello, il brutto, il “sarà vero?”. E’ un odi et amo che sento ogni giorno per questa città.
E’ La grande bellezza, in versione milanese, fatta ad articolo.

Ecco, prendetevi il tempo di leggerlo, anche se il tempo è proprio quello che Milano ci toglie, servono una 15ina di minuti, più 1 per il mio pensiero.
Giusto i minuti che perdereste a cercare un parcheggio, ma tanto lo so che la state per mettere sul marciapiede.

Articolo: Contro Milano, di Michele Masneri

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Un volto, un bagno di merda, una responsabilità

Ad Aurelia Bienko

La strada verso quella che potrebbe essere una delle esperienze più toccanti della vita è immersa nel bosco, puntinata da case enormi e scure. Il Van che mi ci sta portando è il cavallo di Troia su cui ho puntato, non c’è una persona che parli inglese però il nome impronunciabile sul cofano era proprio quello del paese in cui c’è il campo, ho fatto vedere il biglietto all’autista e mi ha dato l’ok in qualche modo, ho chiesto conferma ad un ragazzo dicendo solo “Auschwitz?” e anche lui sembra aver confermato. Ho fatto colazione perché non so bene a che ora riuscirò a tornare, ma è tutto bloccato lì in mezzo. Ansia preventiva? Coscienza di ciò che mi aspetta? Spero che scenda in quest’oretta, non vorrei dover vomitare durante la visita guidata.
Mi sono preoccupata del poter avere fame, lì, dove l’unico che mangiava era il freddo. Si cibava di carne umana, insieme a qualche soldato annebbiato, a qualche generale abbagliato. Non pensò proprio che avrò fame. No.
È lunedì, normalmente a quest’ora sono in metro in direzione ufficio, quasi arrivata o in estremo ritardo. “Normalmente”. L’ho scritto davvero? Ho una routine? Da qualche mese sì. Da febbraio. Motivo per cui non ho più trovato troppo tempo per dedicarmi alla scrittura, se non di poche righe, riservandola ai post di Instagram. Oppure di molte righe, riservandola alle mie note dell’iPhone, senza divulgare, ma senza dilungarmi nemmeno. Eppure, fuori da questa routine che non mi appartiene, c’è la vita. E sto andando a farne una scorpacciata. Apro le braccia e cammino a passo svelto per cercare di prendere un van che mi porti sotto una bella valanga di merda, per ricordarmi quanto è bello l’odore del mare alle 6 di mattina, quando si mischia con quello di focaccia e di brioches. Per ricordarmi quanto è bello l’odore di prato bagnato, appena tagliato, il cinguettio degli uccellini all’alba, il letto di casa, poter scegliere, poter addirittura tornare sui propri passi e cambiare le proprie scelte, poterle prendere in totale autonomia. Per ricordarmi quanto è bello avere più di vent’anni, ma molti meno di trenta ed essere qui, ora, 80 anni dopo, a poter imparare, dagli orrori degli altri, chi non voglio assolutamente essere e cosa non dobbiamo assolutamente ripetere. Per ricordarmi che sono viva e non ho nessun merito per questo, ma certamente ho il dovere di rispettare questo dopo e santificarlo con un sorriso per me e per gli altri. Perché siamo troppo fortunati e possiamo fare la differenza.

La foresta è finita, il bambino accanto a me si è addormentato sulle gambe della mamma però con una mano in aria, controllo maps, che qui ci fidiamo del mio non polacco, ma fino ad un certo punto.

Tarella, il nostro chofer, mentre il cielo diventa azzurro di nuovo. Pensavo che l’azzurro non sarebbe stato veritiero, non mi avrebbe calato nel giusto mood, ma solo perché le immagini più evocative e ridondanti che abbiamo visto avevano la neve, il freddo ed erano in bianco e nero, però ci saranno stati dei giorni di sole, il cielo non rievocava sempre gli Stati d’animo dei presenti incupendosi, a volte sarà stato azzurro come oggi e forse quelle erano le giornate che fregavano di più. Quando nemmeno la meteoropatia poteva incidere sull’umore, quando purtroppo il sole non bastava, anzi, era il preludio di odori fortissimi di sudore e vestiti appiccicosi, proliferare di più malattie, aria pesante e poche energie. Va bene anche il sole, non c’è un clima migliore o peggiore per andare a sotterrarsi sotto la merda.

Cerco di fissare queste immagini, perché rimangano nei miei ricordi, ferme ed indelebili. Le foto, la mano di quel fratellino che stringe quella piccola del minore, appena scesi dal treno. I vestiti, le scarpine che sembrano le piccole Superga da spiaggia che avevo da piccola, sporche di terra, come se il terreno fosse bagnato e si fossero impregnate. Immagino i piedini usciti da quelle scarpe, striati di terra, ma bianchi dove c’era la stoffa. Una salopette, che sembra quella di un bambolotto. Capelli. Capelli. Capelli. Pietre, scatole, utensili da camera a gas. E poi ancora capelli. Una luce strana mi dà modo di riflettermi nel vetro, di profilo vedo i miei, lunghi, biondi e poi sullo sfondo qualcosa di simile a paglia, a capelli della nonna, crespi, invecchiati, ammucchiati, scuri, chiari. Guardo fuori dalle finestre, il sole è diventato più forte e non posso fare a meno di pensare a quanti sguardi di speranza ha ricevuto questo cielo, questo scorcio color mattone, questa finestra. Faccio il segno della croce davanti a qualcosa che mi sembra più significativo. Osservo i movimenti delle macchine fotografiche altrui, quello che scelgono e selezionano, alcune cose di cui non vorrei nemmeno una foto in galleria, figuriamoci stampata. Su questo suolo, dove cammino, qualcuno strisciava, moriva, ansimava, mangiava, per un attimo sorrideva. Qui, con quelle scarpe ancora ai piedi, quei capelli ancora in testa, quei vestiti ancora indosso, quelle valigie ancora in mano, quegli spazzolini. Ve la immaginate la mamma che rimproverava i bambini perché non coprivano le setole dello spazzolino con il cappuccio?”- scelta meticolosa di quali creme portare, di cosa fosse necessario nella nuova vita che li attendeva. Le valigie dei ragazzi venezuelani al confine con l’Ecuador erano molto più grandi, le unghie delle ragazze più curate, però la selezione dev’esser stata la stessa, inconsapevole del “quando tornerò”, del “se tornerò”.

Bus. Birkenau.
Il cielo è velato, tira vento, vuoto.
Noi pensiamo sia brutto, ma la realtà è peggio.
A proposito della metafora che avevo in mente prima, della valanga di merda, nel campo di Birkenau, nella parte femminile, inizialmente non c’erano le latrine, ma quando morì una SS i tedeschi si spaventarono e ne costruirono 5 per parte, 12’000 persone ed 1 ora al giorno per poter andare al gabinetto, 5 secondi per ognuna. 90 rubinetti, l’acqua però chissà se usciva. La cacca veniva spalata dagli stessi prigionieri che scendevano 1 metro e mezzo sotto terra e la tiravano fuori ogni giorno. Che schifo? In realtà quando fuori c’era -40, stare immersi nella merda era una delle sensazioni migliori nonché una grande possibilità di salvarsi, rispetto a lavorare all’esterno ed al freddo.

La guida che è con noi fa questo lavoro da 8 anni, è qui da 8 anni, tutti i giorni tranne Pasqua, Natale e capodanno, a raccontare questa storia, che non ha senso che riporti, perché tutti pensiamo di conoscerla e se non la conosciamo è ora di farlo, ma comunque non la conosceremo mai abbastanza. Sottolinea e ci ricorda che l’80% delle persone che entravano qui morivano direttamente, senza avere il tempo di provare nessuna fatica, isolazione, speranza. Entravano, venivano smistate e restavano si e no 1 ora all’interno del campo, poi camera a gas, doccia (che non è proprio come mostrano nei film, il gas non usciva dalle docce sotto forma di fumo, ma veniva disperso da piccole pietre che, in spazi chiusi, con una temperatura creata dal respiro di tante persone, rilasciavano i gas nocivi di cui erano impregnate e uccidevano), carrello, forno crematorio, fumo, ceneri. E come se non fosse abbastanza cruento questo elenco sterile di fasi della vita di un uomo non ritenuto tale, le ceneri erano usate come concime o sparse per la strada quando nevicava, come sale, come sabbia. “Non erano rispettati da vivi, men che meno da morti”. Ci dice che le parole che usiamo non possono lasciar trasparire la vera identità di quello che provavano i prigionieri. Che il freddo che associamo alla parola freddo non è così tanto freddo e così la fame, la sete, la paura, la speranza. Ma ancora che 
“La memoria è solo questo, qualcosa di dinamico da cui imparare. Vediamo il perché, vediamo cosa sappiamo fare noi, al di fuori di questo filo spinato nella vita quotidiana. Inutile tenere qua dentro quello che abbiamo visto oggi, abbiamo un’arma, torniamo a casa e domandiamoci che futuro vogliamo dare ai nostri figli e nipoti? Tutti i nostri errori li pagherà chi verrà.
Alla morte siamo abituati, non ci fermiamo, vogliamo almeno fermarci sull’odio? Lì si, possiamo. A noi non ce l’hanno tolto il futuro, siamo qui, fermiamoci a pensare, vediamo di non essere noi a toglierlo anche a qualcun altro.”

Qualcuno tira su con il naso, toccato, io per tutto il tempo ho ricacciato le lacrime che affioravano e velavano gli occhi. C’è un odore di chiuso, umido, legno, caldo, una mosca che sbatte ininterrottamente sul vetro, proseguo per un po’ da sola ed è tutto incessantemente uguale. Tutto quello che vedo è stato soggetto ad opere di mantenimento, ma è tutto originale, triste e schematico com’era poco più di 70 anni fa. Lavorano alcuni operai, fotografi, tagliaerba. Sì perché ora c’è l’erba, prima era tutto paludoso e invece ora c’è il prato ed i fiorellini, che se ci fossero stati all’epoca sarebbero sopravvissuti giusto il tempo di un boccone.

Ciondoliamo, affranti, ci sono scolaresche, giovani e meno giovani, camminiamo impietositi, cupi. Qualche neonato piange, qualche bambino fa i capricci, il sole ci insegue. Qui è solo dove dormivano e lavoravano alcuni, altri uscivano dal campo per andare a lavorare, dormivano in basi accanto ai terreni e poi tornavano solo quando non erano più buoni per il lavoro. “Non erano più buoni per il lavoro”, che espressione schifosa. Tornavano qui, a morire. Perché questo era il più grande campo di sterminio, più che altro. 

Il bus che riporta ad Auschwitz parte ogni 10 minuti, ho fatto la foto agli orari, posso prenderlo quando voglio, io. 
Compio questo gesto semplice: esco. Passò attraverso un cancello che interrompe il filo spinato ed esco. Come se fosse la cosa più normale del mondo. Cercherò un bus per tornare verso Cracovia, fare una merenda abbondante o un pranzo tardivo, controllare la home di Instagram, pubblicare queste righe sul blog, prendere un aereo, baciare chi amo, cagare nel mio bagno ogni mattina prima di fare colazione, prendendomi il mio tempo, tutto il tempo che voglio. Tutto il tempo che ho. Torno alla mia vita di tutti i giorni. Io che posso.

A cos’è servito tutto questo? Mi sarei potuta fermare di più? Avrei dovuto concedermi più tempo? Avrei dovuto fare una visita individuale senza la guida? Avrei dovuto piangere? Cosa devo fare con i miei capelli?
Mi posso porre interrogativi inutili e superflui, perché ho il tempo per farlo, perché approfitto del viaggio per scrivere. Loro non avevano questo tempo e quando lo avevano cosa sognavano? Cosa pensavano? Cosa immaginavano quei bambini che trasportavano corpi? Cosa sognavano in 8 su un letto, mentre guardavano il disegno di una scuola sul muro? Cosa speravano?
Non ho mai letto Se questo è un uomo, o Anna Frank, ma non ho mai letto tanti altri libri che potrei leggere, come non ho mai visto Shinder List. Ho studiato la storia, con passione, quando me l’hanno spiegata, ho cercato di guardare, cogliere, apprendere da chi sapeva più di me, ho guardato qualche film e tutto qui. Posso fare di più. Per imparare, ancora, dagli errori degli altri, per ricordare. Per non ripetere, per fare la differenza.

Voglio solo staccare la testa ora.
Pensarci tanto o non pensarci affatto. Non so cosa stia provando, ma so che voglio sapere e far conoscere. 

Salgo sul bus, ce ne sono tantissimi, 15 zloti ed in 1 ora e mezza sarò nuovamente nella civiltà, come ci piaceva dire durante l’on The road in sud America. Eppure di civile non c’è niente, la stessa civiltà che oggi banchetta e fa shopping, è nipote o pronipote o vicina di casa, di chi ordinava o supportava più o meno inconsapevole, questo scempio.
Guardiamoci dunque le spalle da noi stessi. Guardiamoci allo specchio e non dimentichiamo.

Mi lego i capelli e li tengo stretti, saldi a me, come la speranza, che è davvero l’ultima a morire in me, che saremo davvero il cambiamento positivo di questo mondo. Perché abbiamo studiato, perché siamo intransigenti, perché abbiamo visto tanti errori, perché non ci siamo abituati al calore della merda. Perché non è di sollievo. È merda. E nella merda non ci vogliamo stare, come non vogliamo far stare i nostri fratelli, amici, figli e nipoti.

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Un techo para mi país – Buenos Aires pt. 7

Stamattina ho aperto i ricordi e campeggiavano lì, le foto dello scorso anno, le foto di quel magico fine settima con Techo. Mi sono ricordata che presa dall’emozione registrai un paio di note vocali, perché dovevo assolutamente far arrivare fino all’Italia le mie sensazioni. Non scrissi, avevo iniziato un progetto, inconcluso ovviamente, che aveva a che vedere con le note vocali, ma ho deciso di riportare fedelmente il parole di una di quelle registrazioni. Non ho modificato i “cioè” “praticamente”, nemmeno i “quelli” o “questi” che potrebbero sembrare quasi dispregiativi, ma non lo sono assolutamente, è semplicemente una nota vocale ad un amico, con tutta la confidenza e l’assenza del tatto che si utilizzerebbe in una situazione normale, per questo credo possano trapelare puramente tutte le mie impressioni di allora. Nonché la mia difficoltà con la lingua italiana quando sono solita parlare spagnolo.
Il concetto di “povertà” si è evoluto molto durante l’ultimo anno e l’ultimo viaggio, non è più troppo simile a quello descritto nella nota qui riportata, ma questa è una fase di riflessione che vale la pena mettere nero su bianco, anche per farvi capire cos’è Techo e come vive una gran parte della popolazione mondiale.

Eccoci!

Allora, faccio una nota vocale registrata perché mi stavano venendo i crampi alle mani a furia di tenere premuto il tasto del vocale, quindi adesso vado di microfono e poi ti manderò questa nota. Sto approfittando del viaggio in autobus quindi se senti dei rumori in sottofondo ti chiedo scusa però il lunedì è giorno volontariato e quindi -anche con un po’ di ritardo- stiamo andando ed il viaggio è lungo (ci mettiamo un’oretta ad arrivare) e ne approfitto per mandarti il messaggio vocale.

Niente, praticamente un mesetto/due fa, io e Ale avevamo cercato delle associazioni con cui fare volontariato e avevamo trovato quella in cui siamo andate ogni lunedì, Banco de Alimentos e questa, che si chiama Techo che costruiva casette, case per delle famiglie bisognose. Noi alla cieca ci siamo iscritte, abbiamo compilato tutto il modulo online, abbiamo fatto il pagamento e qualche giorno fa ci è arrivata una mail per ricordarci che questo weekend ci sarebbe stata questa attività. Di cui noi ci eravamo totalmente dimenticate. Sapevamo che c’era, ma non sapevamo cosa fosse. Ci hanno mandato una mail dicendo “mi raccomando portate il sacco a pelo, guanti da lavoro, stivali, vestiti da sporcare.” 

“Ah, ma quindi stiamo fuori tutto il we?” Non sapevamo cosa saremmo andate a fare, non avevamo minimamente idea e non sapevo nemmeno che saremmo state fuori tutto il we. Vabbè, siamo partite, senza nemmeno il sacco a pelo perché non ce l’avevamo, proprio alla cieca. 

Siamo andate in questo ufficio in cui c’era un sacco di gente, ci hanno smistate in varie zone, io e Alessia ci siamo divise, ci hanno assegnato due zone diverse, abbiamo preso un altro autobus ed in circa 1 ora e mezza dalla Capitale, restando comunque nella Provincia di Buenos Aires, siamo arrivati ad un barrio che si chiama Augustoni. Un barrio della zona di Pilar. A quel punto ci hanno divisi in sottogruppi: eravamo una decina di gruppi da 7/10 persone ciascuno, ad ogni gruppo è stata proposta una famiglia ed ogni gruppo aveva il compito di costruire una casa.

E… abbiamo costruito una casa.

Ci siamo riusciti!

In due giorni abbiamo costruito una casa per una famiglia carinissima.

Erano in 5: mamma, papà, anzi, erano in 6, c’era anche il cagnolino. I 5 erano mamma, papà, due ragazze (una di 12 e l’altra di 13 anni) un fratello più piccolo (di 10 anni) ed il cagnolino di 40 giorni, piccinissimo.

Solo il papà lavora, attualmente vivevano in una casetta di mattoni a vista, in una zona in cui l’asfalto è un miraggio, c’è solo terra e fango, buche e ponticelli di legno fatti con travi ammassate, per superare il ruscello che contorna tutte le case.

La loro casa era composta da una stanza con un frigorifero, un fornello elettrico, un letto matrimoniale, un letto a castello, un letto pieghevole, il tavolo per mangiare che viene tirato fuori quando si piega il letto e… basta.

Grandezza della stanza… non lo so, metà della mia cucina di casale?

Un bagno, di 2 metri quadrati, 4? 3? 5 metri quadrati sarà? 3? Guarda non lo so, 3 metri quadrati sarà stato, in cui c’era soltanto un water ed una cassettina da ricaricare per fare la doccia. 

Basta.

Non avevano una connessione all’acqua, ma una grande tanica da cui la prendevano per lavare le mani, per metterla a bollire e cucinare, per lavare il water al posto dello scarico, per metterla nel cosino della doccia e lavarsi… Non voglio sapere per cos’altro.

Praticamente noi gli abbiamo costruito questa casa che è un prefabbricato, sono delle casette di emergenza, tipo quelle che potrebbero mettere, già fabbricate però, senza mettergli le fondamenta – noi abbiamo fatto le fondamenta ovviamente perché quella diventerà la loro casa – però immagina magari: Abruzzo, terremotati, la gente rimane sfollata, fanno grandi tendopoli, ma se devono rimanere più tempo prendono dei prefabbricati tipo quelli che trovi al Self fuori, ma più grandi e li portano. In Italia magari li portano già fatti, mettono 4 pezzi lì per terra e via, non stanno a scavare e fare le fondamenta, invece noi abbiamo scavato 15 profondissime buche, ci abbiamo infilato i piloni, poi abbiamo messo il pavimento, le pareti, il tetto, le lamiere, abbiamo impermeabilizzato, abbiamo fatto tutto. 

Abbiamo dovuto un po’ lottare perché volevano che la porta della casa coincidesse con una porta che loro avevano già nella loro casetta di prima, in modo tale che fosse come una stanza in più e quindi abbiamo dovuto prendere bene le misure, l’altezza doveva essere quella del loro pavimento, insomma… è stato un weekend faticoso, ma non ho minimamente sentito la fatica.

Finalmente ho visto quella parte di argentina che cercavo, quella parte di Sud America che avevo bisogno di vedere e di conoscere perché… perché sì. Perché alla fine quando ho visto “Buenos Aires” come meta del doppio diploma io ho pensato subito “Ah! Buenos Aires -> Sud America -> Perù -> Operazione Mato Grosso -> Raccolta viveri”. Tutto quello che abbiamo sempre fatto per anni ed anni all’oratorio era per il Sud America. Tutte le missioni in cui sono andati i nostri animatori erano in Perù e quando io pensavo al Sud America pensavo a tutte le immagini che mi hanno sempre mostrato in oratorio.

È stato strano perché quando poi sono arrivata a Buenos Aires, Buenos è una città, una capitale a tutti gli effetti, con tutti i servizi, per quanto arretrati rispetto a quelli italiani o europei, con tutti i servizi possibili ed immaginabili. Con un tenore di vita molto alto, in cui io spendo praticamente come a Milano. Quindi arrivata a Buenos Aires boh non so, forse ero anche un po’ delusa in realtà, ma ho fatto bene a non demordere e ad attendere perché ne è valsa la pena. 

Questo we veramente è stato un bagno di umiltà dall’inizio alla fine. Vedendo la gioia con cui vivono in famiglia, tra di loro, ero quasi invidiosa della loro gioia, stupefatta di quanta gioia si possa provare non avendo nulla. Nulla. 4 mattoni, della calce, dei letti buttati lì. Non avendo nemmeno un cazzo di cesso in cui cagare, una doccia degna di tale nome, nulla. Non avevano un cazzo di nulla, non hanno un cazzo di nulla, anzi ora hanno un tetto in più e sono veramente la persona più felice del mondo per aver avuto la possibilità di regalarglielo. Anzi, di aiutarli a costruirlo, perché ci hanno aiutati dal primo momento all’ultimo, sono stati sempre super disponibili, ci hanno fatto da mangiare per due giorni, le ragazze sono degli amori, il piccolino veniva a scavare con noi, metteva proprio le mani dentro la terra e scavava. Le ragazze -figurati- alla mezzana piace un sacco disegnare, ci ha fatto vedere i suoi disegni (bravissima) e ce n’era uno con un unicorno ed io faccio “no che bello, a me piacciono un sacco gli unicorni!” e me l’ha regalato. Subito. Diretta. Senza pensarci un secondo. Non hanno niente, non hanno la carta per pulirsi il culo e dico “che bello” un disegno e me lo regalano. 

Sono veramente felicissima di questo we. Tra l’altro appena siamo arrivati eravamo tantissimi giovani, dai ragazzi del liceo a ragazzi di 28/30 anni, c’è gente che è in questa assicurazione da anni perché comunque è una cosa che fanno una tantum: circa ogni 2 mesi c’è un we di costruzione. Nel mentre ci sono dei gruppi di volontari che vanno tutti i sabati a conoscere le persone del barrio a fargli dei corsi, di cucina, fanno fare i compiti ai bambini, corsi d’imprenditoria, di microcredito (per spiegargli come accedere ai crediti) etc. C’è poi un gruppo che va a conoscere tutto il barrio e le persone che fanno richiesta della casa per scegliere, per capire chi la merita di più, chi ha delle buone intenzioni, della serie “noi questa casa gliela costruiamo, loro ci danno una cifra simbolica ed è come se gliela stessimo vendendo, loro però firmano un contratto, s’impegnano a mantenerla in una determinata maniera, ad utilizzarla solo per viverci, a non affittarla, a metterci dentro i servizi (noi non possiamo collegare la luce etc). C’è quindi un contratto dietro e non costruiamo a famiglie – costruiamo a famiglie in situazioni di merda – non a famiglie in cui ci siano alcolizzati o drogati, perché magari sarebbe uno spreco o non ne farebbero il corretto uso. Ci sono famiglie oneste e bisognose ed a queste costruiamo, appunto ci sono delle ragazze che vanno tutti i sabati a conoscerle, a farci amicizia, a capire le loro esigenze etc.

Quindi c’era gente che costruiva per la prima volta, gente che è da anni in Techo, gente che ha costruito decine di case, tutte persone carinissime, umilissime, con il sorriso sempre in volto, voglia di conoscersi ed era questa la mia idea degli argentini e della popolazione. in realtà non sono così, non sono così in capitale perché ovviamente chiudono gli occhi e fanno finta che queste cose non esistano vicino a loro, hanno perso l’umiltà, la solidarietà che invece, ho notato, contraddistingue molto tutti questi ragazzi che erano lì, tutte le persone che abbiamo conosciuto, quindi sono veramente veramente contenta, felice. 

Non vedo l’ora di poter costruire di nuovo.

Tra l’altro domenica prossima torniamo perché non abbiamo finito di montare le finestre e verniciamo insieme a loro. ci hanno invitati a pranzo… insomma sono contenta, sono veramente felice, è stato un we pazzesco, il più bello da quando sono qui e… non so se rendo l’idea di quello che è stato.

Ti dico che non mi sono lavata per 3 giorni, dormivamo in una scuola con sacco a pelo buttato per terra. no in realtà per terra no perché io sono arrivata che non avevo ne sacco a pelo ne niente, mi sono fatta prestare sia sacco a pelo, mi sono imbucata nel materassino gonfiabile di un ragazzo, gli ho fregato il cappellino, boh vabè ho fregato tutto alla fine. Eravamo un sacco con sacchi a pelo per terra o sui materassini, c’era il bagno come può essere il bagno del Sobrero, quindi senza docce né niente e non me la sarei nemmeno sentita di rubargli tutta quell’acqua. Eravamo 200 persone, se ci fossimo dovuti lavare tutti questi non si sarebbero più lavati per tutto l’anno praticamente, con l’uso -non so la parola, non mi vengono più le parole-, con l’uso minuzioso che fanno loro dell’acqua. Indi per cui siamo stati tutti belli luridi per tutto il we, mangiavamo tutti assieme, niente di veramente commestibile, il pranzo ce lo facevano le famiglie: noi portavamo la pasta per farcela da soli e poi ovviamente le famiglie insistevano e ci facevano loro da mangiare, cose tutte leggere tipo milanese il primo giorno, pizza, ieri tortilla de patata, della serie cose che dopo aver pranzato avevo voglia di buttarmi e fare la siesta invece no, a scavare, vabè.

É stato veramente bello, poi c’erano delle persone veramente cariiiiine, alcune veramente ammirevoli. sono troppo contenta (l’ho già detto?).

Spero di essere stata abbastanza descrittiva, questa nota vocale è molto lunga, mi dispiace, non so se renderà l’idea, anzi… probabilmente non la renderò e sicuramente le foto non renderanno giustizia, però ho provato a spiegarti un pochino le mie sensazioni e quello che ho provato perché è una cosa che in Italia non puoi vedere. È una cosa magari ti aspetti in Africa, era una cosa che io pensavo ci potesse essere in Sud America e l’ho trovata e mi fa ancora più specie pensare che questo non sia il livello più basso di povertà. che ci siano poveri ancora più poveri dei poveri. che vivono ancora in condizioni peggiori e magari non lo sanno neanche perché ci sono dei paesini del Perù in cui le persone sono totalmente isolate, vivono nel loro.

Wow.

Vedremo.

Vedremo quante altre possibilità avrò di toccare con mano la povertà, di aiutarla, di -nel mio piccolo- essere il cambiamento che vorrei veder avvenire nel mondo.

Scusami per i 17 minuti di nota vocale, però avevo veramente bisogno di condividere con te questa cosa perché non ha eguali, sono felice, grata e quasi un po’ imbarazzata. per tutto quello che ho, per la fortuna che ci ha toccato, perché è semplicemente fortuna: loro sono nati lì, noi siamo nati dall’altra parte del mondo. Che colpe abbiamo? Che meriti abbiamo? Nessuno.

Spero che possano iniziare a sognare in grande anche loro, con un tetto in più sopra la testa.

Scusa per il messaggione, scusami scusami.

Ciao tesoro, mi manchi, spero che 17 minuti bastino per farmi sentire un po’ più vicina.

E smettila di dire che non ci sono, non ci sono stata questo we, ma ti voglio sempre bene.

Basta, stacco…

Sono 18, scusamiiii.

 

   

      

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Piovigginava, lieve – Buenos Aires pt. 5

Era da un po’ di tempo che non mi facevo un pianto liberatorio del genere. Uno di quelli senza senso, stimolati dall’abbandono di un cagnolino in mezzo alla strada in una pubblicità o dalla caduta di un pezzo di prosciutto mentre prepari un toast. Un pianto da pazza, da sbalzo ormonale, da mestruazioni in arrivo, da chi ha proprio bisogno di sfogarsi. Un pianto gratuito, sul letto, nella tua cameretta, in silenzio, con il moccolo al naso e versetti da bambina.

Ho casualmente trovato un articolo che parlava della fidanzata di Tim Bergling (Avicii), con la quale aveva una relazione mantenuta nascosta al pubblico perché fosse solo loro. Ora è di dominio pubblico, l’ha resa pubblica dopo essersi resa conto che lui è morto davvero. Sognavano insieme di apparire solo quando avrebbero messo al mondo un figlio, solo quando qualcosa li avrebbe legati per sempre indissolubilmente, come solo un pargolo può fare, più di qualsiasi anello, più di qualsiasi promessa. Qualche giorno fa Tereza ha pubblicato un video collage di fotografie di loro 3, loro due ed il figlio di lei avuto da una precedente relazione con cui Tim aveva una relazione praticamente paterna. Al video muto sono susseguite 13 fotografie, 13 screenshot di una lettera non semplicemente a piedi nudi a cuore aperto, come la chiamerei io, ma a piedi infangati, insanguinati e cuore a brandelli, putrefatto. Una lettera piena di amore, incredulità, paura, nostalgia e malinconia, che mi ha fatto riversare tutti i liquidi che avevo in corpo sul cuscino.

 

Forse avrei dovuto farlo prima, correre, piangere, prendere a pugni il muro e urlare a squarciagola. Lasciarmi andare ad un po’ di sana e meritata angoscia.

Forse dovremmo concedercela tutti, una rigenerante via di fuga. Ogni tanto, dovremmo aprire quella porta che collega la nostra anima al nostro corpo ed il nostro corpo all’esterno, al vacio celestial. Per lasciar evaporare, come in sauna, le tossine in eccesso, i brutti pensieri, le tristezze, le paure e ricaricarci. Per lasciarli nei fanghi come farebbe Litt o per prenderli a pugni come farebbe Specter.

 

Ho sempre predicato la gioia, l’amore e la pace nel mondo. Ho sempre cercato di essere la soluzione e non il problema, di guardare il lato positivo, di sentirmi una roccia, di non lasciarmi scalfire, di essere quella forte, il punto di riferimento… stronzate.

Arroganti ed esuberanti prese di posizione di una ragazzina impaurita e corazzata, che alza muri ed indossa protezioni per affrontare ogni problema, finché non rimane in mutande, in braghe di tela e non le resta che piangere.

 

È stato un mese difficile, forse più di un mese in realtà. Ho avuto paura. Una paura fottuta di non stare bene. Un timore nemmeno troppo fondato, forse dettato dal senso di colpa oltre che dalla leggera ipocondria da cui mi sono fatta prendere.
Ho iniziato ad interpretare ogni dolore come un sintomo, ogni sintomo come una punizione e le mie azioni come un insieme insensato di scelte prese a caso, per dimostrare non so cosa a chi ed a me stessa.

E invece l’unica cosa che dovevo interpretare, poi me ne sono accorta, ero io che a gran voce mi dicevo di fermarmi, di tornare a nuotare, di smetterla di galleggiare sulle acque della mia stessa vita.

 

È successo che due anni fa, quando ne avevo ancora 20, appena tornata dal mio Erasmus, in fretta e furia mi sono laureata. Il giorno dopo, ancora in clima di festa, sono partita con Monse e Pedro per la Sardegna. Abbiamo raggiunto Ilenia e girovagato per l’isola per una settimana. In direzione Tuerredda, all’ora del tramonto, con l’odore di pesce sotto al naso, la giacca di jeans di mamma e la spensieratezza di quel periodo, ricevetti una mail. Un professore della triennale che aveva chiesto a Lucia i miei recapiti mi scrisse poche significative parole che ho custodito fino ad oggi.

Diceva più o meno così:

 

“È ovviamente scontato farle i complimenti, già sa la profonda stima professionale che ho nei suoi confronti.
Ma leggere le sue parole su Internet, per caso, appese ad un filo di sole invisibile e vive come un acrobata incerto tra la banalità e la perfezione, mi ha lasciato di sasso. Di pietra e di sasso. Di rado ho letto, in una persona così giovane soprattutto, un talento simile, che forse nemmeno io possedevo alla sua età.
Non butti via la sua ricchezza, perché il mondo (e quindi tutti, e quindi anche io) ha bisogno di persone come lei: profonde come una cicatrice, talvolta dissacranti, ma piene di rune e di luna.
Mi ha fatto piacere conoscerla.”

 

La mia risposta non si fece attendere e nemmeno la sua, alla quale seguì un’altra mail di cui, purtroppo, mi rimane solo uno screenshot che mandai a Vincenzo.

 

“La saluto con due raccomandazioni culturali, che so saprà apprezzare (se già non le conosce): il Walden di Thoreau e Unthought Know dei Pearl Jam”.

 

Due mail una più bella dell’altra, che mi hanno riempita di gioia e di orgoglio, quando in realtà avrebbero dovuto riempirmi anche di motivazione. Non ne ho mai fatto l’uso appropriato, lasciandole in disparte nella sezione Speciali di Gmail. Ero in vacanza, non avevo il computer, non era il momento scaricare quella canzone e nemmeno per andare a comprare un libro. Sono stata superficiale, proprio quella parole che non mi piace mai sentir pronunciare ad Ale.

 

L’estate è finita, ho cambiato università, sono andata a vivere a Milano, Alessandria è rimasta da parte, ho vinto la borsa di studio, sono partita per Buenos Aires, ho viaggiato per l’America Latina, sono tornata a Buenos Aires, sono ripartita per il Cile e solo a quel punto sono ritornata al punto di partenza.

 

Non ero a conoscenza del fatto che Eddie Vedder, cantante che amo, di cui amo le colonne sonore da solista e che è sempre stato presente nella mia playlist, giusto al secondo posto rispetto a Bon Iver, fosse il frontman dei Pearl Jam. In teoria una cosa viene prima dell’altra, ma io ovviamente conoscevo l’altra. Superficiale.
Mentre annullavano l’ultimo giorno del Loolapalooza a Buenos Aires e Edward tornava a casa senza essersi esibito, io scoprivo che lui era il cantante dei Pearl Jam.
Così, qualche settimana dopo, al momento di uscire di casa per camminare un po’ sotto la pioggia e piagnucolare su quanto fossi in ansia per la mia condizione fisica, cercai quella mail, per scaricare quella canzone.

“…il Walden di Thoreau e Unthought Know dei Pearl Jam”.

 

Le pareti piano piano hanno iniziato ad oscillare.

 

La settimana precedente ero stata in Cile, durante qualche giorno di relax a Viña del Mar io e Ale ne abbiamo approfittato per finire Merlì, la serie catalana che racconta le dinamiche di una classe di un liceo di Barcellona, incentrandosi sulla vita del loro professore di filosofia. Abbassando sul piano attuale e semplificando alcuni concetti espressi dai più sommi filosofi, il Bergeron ha riacceso la liceale che era in me incuriosendomi, con una citazione di Thoreau rivolta ad un alunno:
“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto.”

Una frase che incuriosirebbe chiunque, che insieme ad un tweet di un professore un po’ moderno, di matematica, che trovate sotto @orporick che diceva “In mezzo a un mondo di chiassosi, superficiali attori, è nobile stare in disparte e dire – Io voglio semplicemente essere -” Da una lettera Di Harrison Blake a Henry David Thoreau del 1848, mi ha convinto a cercare quel Walden, ad andare in biblioteca e portarlo a casa.

 

Ero su una delle sedie rosse del salotto, con Walden nella borsa e Unthought Know nella playlist, le pareti oscillavano, fuori pioveva, non sapevo cosa mi stesse succedendo, ma avevo capito. Con due anni di ritardo, avevo la mia vita tra le mani, nuda e cruda, fatta di certezze e paure, umana come ogni altra vita, a quel punto un po’ più consapevole.

Il mondo ha fatto dei giri strani, forse qualche piccolo Jake o qualche Amelia hanno toccato i fili della sequenza per farmi inciampare in qualcosa che mi avrebbe fatto bene, che mi avrebbe aiutata, in qualcosa che già una volta mi era stato segnalato ed io avevo ignorato.

Mi è parso di aver perso un sacco di tempo, quando in realtà, forse c’è un momento per ogni cosa e davvero se qualcosa dev’essere sarà.

 

Io sicuramente dovevo leggere Walden ed ascoltare i Pearl Jam, mentre mi rendevo conto di cosa significasse il mio vagare, di quale fosse il mio scopo ultimo: trovare la mia dimensione, il mio spazio vitale, il bello che mi fa stare bene, in me stessa però, non in un luogo preciso, ma dentro.

 

Ho avuto paura ed ho scoperto dove finisce, tutta. Immagino che ci sia un posto, dentro ognuno di voi, in cui accumulate lo stress, l’ansia e la paura. Come i brividi per qualcosa d’impressionante arrivano dalle chiappe, quelli di freddo risalgono la schiena, quelli d’emozione prendono le braccia. Così ho scoperto che tutta l’ansia che non sapevo nemmeno potessi provare era rinchiusa tra l’ombelico e l’esofago, lì, nella mia pancia.

Ancora non se n’è andata, magari è in compagnia di qualche virus intestinale preso in una capanna sulla spiaggia in Colombia o in un water all’aria aperta a 4500 metri sulle Ande, magari invece è sola soletta.

Io anche, sono in solitaria nella mia stanza con il computer sulle gambe e la tranquillità nel cuore. In solitaria non significa sola, so di non essere sola, eppure ho imparato ad arredare ed apprezzare ogni tratto della solitudine, rendendola quasi necessaria, quasi un rituale di amor proprio. Questo l’ho imparato grazie ad Alessia, persona splendida che con me ha condiviso tutto questo viaggio, con la sua personalità totalmente opposta rispetto alla mia, con la sua introversione che la rende una perla preziosa da trovare.

 

Mi sono sempre saputa vendere bene, ma ho peccato in tanti aspetti che è ora di correggere.
Fin da bambina non ho mai finito un diario, iniziavo, scrivevo due pagine e poi basta, eppure potevo dire di avere un diario segreto. No, non avevo un diario segreto, non parlavo con il mio diario, facevo finta per qualche giorno e poi lo abbandonavo per qualcos’altro. Crescendo ho smesso di rovinare i bei quaderni per cose che sapevo che non avrei finito, mi sono ripromessa di smettere di farlo e a tutt’oggi non sono ancora stata in grado.
Non mi piace. Non mi piace sentirmi un’inconcludente, anche se si tratta dell’album dei ricordi di Siviglia, o delle registrazioni per Radio ESN, anzi, soprattutto se si tratta di cose meno formalmente importanti. Sono bravi tutti a fare il proprio dovere, a pagare le bollette entro la scadenza, a mangiare lo yogurt prima che sia troppo tardi, quella è la base, ma tutto il resto?
Quando si tratta di cose formali posso essere intransigente e meticolosa, quando si tratta invece di altri impegni presi con me stessa o con persone a me meno vicine, non dovrei avere lo stesso rispetto? Perché mi perdo? Perché non so dire semplicemente “no” o “no guarda, non me la sento di prendermi questo impegno perché temo di non poterlo portare a termine, mi sto dedicando ad altro”, un sincero e rispettoso “no” per non perdere tempo e non farlo perdere agli altri. E’ così difficile?

È così difficile d’altro canto arrivare puntuali?
Un professore che mi piace, d’investigación de mercados, il primo giorno, per conoscerci, ci ha posto alcune domande stravaganti e curiose. Tra queste c’era “che tipo di persona non ti piace?”, dopo aver lasciato rispondere tutti noi le ho rivolte a lui e la sua risposta è stata “non mi piacciono i ritardatari perché rubano il mio tempo, il tempo è una risorsa scarsa per tutti, se una persona me lo estirpa, mi manca di rispetto e non mi piace”. Mi sono sentita così avvilita, così ladra di tempo altrui, così poco rispettosa nei confronti di chiunque mi abbia aspettata, che quanto meno sto imparando ad avvisare anticipatamente le persone che mi conoscono meno, se non che addirittura ad arrivare puntuale.

 

È così difficile accontentarsi? Fermarsi? Guardare più a fondo quello che ho attorno, invece di crede di conoscerlo, e continuare a guardare altrove?

 

Il mio corpo si è fatto sentire, per dirmi di abbassare i giri del motore, chiedendo un po’ di tranquillità e la mia mente ha iniziato a sentire la necessità di punti fermi, di orari, di abitudini.

Che parola spaventosa eh?
Io che ho sempre pensato alle abitudini come a qualcosa di statico, triste e riservato a chi si accontenta, ora ne vorrei di più.

Non parlo di quelle abitudini a cui non ho mai rinunciato, le belle abitudini come il latte e cereali, la messa della domenica e Santa almeno a ferragosto, ma parlo di quelle quotidiane, settimanali, quelle che in questo momento associo alla stabilità ed alla calma interiore. Una routine d’igiene femminile, latte detergente, tonico, creme. Fare i dolci la domenica, mangiare pizza il venerdì, un hamburger al sabato… ci sono stati anni in cui avevo tante di queste abitudini e non saprei dire se stessi meglio o peggio, ero sicuramente felice, mi ricordo felice sempre dal primo anno di università ad oggi almeno, però ero sicuramente in salute, con un fisico pazzesco che rifletteva la tranquillità interiore.

 

Parliamoci chiaro, non voglio comprare un gatto, lavorare in azienda e smettere di viaggiare, questa non sono io e mai lo sarò, ma tra l’essere una nomade vagabonda che cambia casa ogni 2 giorni ed avere quanto meno una casa c’è quello step, quel gradino che ho proprio voglia di fare adesso. Non in un adesso immediato, ma in un futuro estremamente prossimo, diciamo al mio rientro. Per questo ho avuto voglia di tornare a casa: per mettere ordine, fuori, nella mia vita e dentro di me, per ricominciare con onestà intellettuale e consapevolezza a vivere, da umana, da donna, da Doralice. Senza sensi di colpa, freni, senza vergogna, concedendomi alle paure ed ai giorni grigi, come a tutti gli altri. Concedendomi ai miei 22 anni, come Thoureau al bosco, con 24 dollari, un po’ di libri, tanto da imparare e nemmeno un attimo da sprecare.

 

Ho sofferto, un po’, per una giusta causa: rinascere ancora. E va bene così.

 

Grazie a quel professore, che spero sia ancora un mio lettore e possa essere oggi un po’ fiero di me, un po’ di più.

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San Cristobal de las Casas – diario di bordo 9

Ma chi è che ha detto che fa freddo a San Cristobal? Si sta veramente bene in maniche corte. Taxi e siamo sotto casa di Monse, questo paesone è pieno di casette colorate, basse, stradine in pietra in cui passa solo una macchina alla volta, i marciapiedi sono percorsi ad ostacoli, su, giù, rampa. 39a. Eccola!
L’unica cosa certa era vederla arrivare saltellando.
La casa è veramente bella, ma molto fredda, non c’è il riscaldamento qui nelle case, nonostante siano super moderne ed il Wi-Fi vada meglio del nostro a Buenos Aires, ovviamente.
Usciamo velocemente per pranzare perché in casa ci saranno veramente 5 gradi in meno che fuori.
Qui si può pranzare con 60$ (circa 3 euro), una zuppa, un piatto principale ed un acqua al limone. Proviamo tutto, come sempre, povero stomaco.

Un paesino di montagna, con le strade in salita ed in discesa, con una via principale, due piazze, un mercato dell’artigianato, uno alimentare, centinaia di localini uno più bello dell’altro, anche le catene più famose sono inserite in casette tipiche e si mimetizzano con il contorno. Ahhhh. Se non fosse per la mancanza della neve e per i troppi hippie per strada potrebbe anche ricordarmi Cervinia. Sicuramente, finalmente, si sente il Natale.
A tal proposito andiamo ad una posada! Tutto il giro di amici di Monse sono altri ragazzi e ragazze internazionali e non che lavorano per associazioni umanitarie, ed è in una di queste che c’è la posada di questa sera. “Posada” è il nome comune dell’attività di andare di casa in casa, come fecero Maria e Giuseppe prima del Natale e per questo il termine indica anche la festa pre natalizia tra colleghi ed amici, che si accolgono a vicenda nelle case o nei posti di lavoro.

Questa posada non è famigliare, ma di un’associazione che difende i diritti umani delle popolazioni indigene, come quella in cui lavora Monse, ma stasera non c’è distinzione, ponch per tutti e tacos a volontà.
Bello questo mood, bello questo Mexico.

Il giorno dopo è ancora un gironzolare, perché è questo il bello di San Cri, non tanto i monumenti, quanto i movimenti della gente, gli usi. Gli indigeni delle cittadine limitrofe scendono in città a vendere i prodotti del loro lavoro, principalmente tessile e alimentari. Le blusas di Chiapas sono famose ovunque, fresche, di puro cotone e decorate a mano. Le coltivazioni sono le tipiche messicane: mais di tutti i colori, riso, fagioli, platano, spezie, carne e chile. Di tutti questi prodotti è pieno zeppo il mercato, in cui mi scontro con le fragranze, ma soprattutto con i tanti bambini che sono accanto ai genitori anche in mattinata. Chiedono a Monse se vadano a scuola, la risposta è un po’ vaga: alcuni si, altri no. L’impressione è che molti non ci vadano, che aiutino mamma e papà a vendere, che vendano da soli con una cassettina-espositore al collo, nella via principale. Mentre penso che la prima preoccupazione delle mille ONG locali dovrebbe essere istruire i bambini, a quanto sia carino un biondino con cui ho incrociato lo sguardo, a trattenermi dal mettere le mani nei sacchi di legumi come farebbe Amelie, non riesco a togliere gli occhi di dosso ad una giovane che striscia letteralmente per il mercato. Si tira con le braccia, senza alzare la testa, due ciabatte nelle mani, per non tagliarsi ed i pantaloni lunghi, che puliscono il suolo, vuoti. Qualcuno le tocca una spalla, lei capisce, ferma il suo impegnativo cammino, sfila la manina piccola e sporca dalla crocs e la alza al cielo, afferra una moneta piccola piccola e senza nemmeno guardarla riprende il ritmo. Mi si stringe il cuore, il portafoglio, non riesco a non soffrire per lei, eppure andiamo avanti, allunghiamo il passo, Monse vuole farmi vedere le tortillas azzurre. Voi lo sapevate che esiste il mais azzurro? Che colore stupendo e raro da trovare nel piatto. È bastato un attimo ed abbiamo girato l’angolo, lasciando indietro i bambini, l’umanità strisciante e la tristezza, i pensieri profondi e quelli frivoli. Come siamo volatili.
Cerchiamo un hamburgeria che ci hanno consigliato, dove giustamente sono finiti gli hamburger ed è già ora di rimettersi in viaggio, di lasciare il freddo e le luci natalizie, che per un attimo mi hanno ricordato che si avvicina il Natale. Saliamo sul bus ed inizia una nuova avventura, mentre quella ragazza magari sta ancora consumando le ciabatte con le mani, o sarà in qualche angolino a lottare con il freddo.
È difficile lasciar andare, guardare oltre, passare sopra. Monse sa che non ce la può fare, ha deciso che non seguirà i suoi studi, che questo mondo ha bisogno di lei, che questi indigeni vanno aiutati, magari tornerà in Germania a lavorare qualche mese per poi vivere come un pasha a sancri, dove l’affitto mensile le costa 90€, perché lei si tratta bene, altrimenti potrebbe costare pure meno, e un pranzo costa Massimo 3€. È sostenibile, è altruista, le fa onore, ma resta il fatto che…
Siamo troppo fortunati.

 

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Laguna Bacalar – diario di bordo 8

Non era in programma, ma ci hanno convinte. Dopo una serata fin troppo lunga al Coco Bongo, dopo 6 mesi che non mettevo piede in una discoteca, con 4 ore di sonno, carichiamo 6 messicane, 1 svedese, 1 polacca e ci avviamo verso Bacalar. Mi addormento secca finché non crepo dal caldo e mi rendo conto che tutto il van sta facendo colazione. Apro lo sportello e sono investita da un forte profumo di pesce. Sono le 11 di mattina, la colazione è a base di pesce, cipolle, pesce, peperoni, piccante. Abbiamo i biscottini ai mille cereali nella borsa, ma bando alle ciance, o si fanno le cose bene o non si fanno. E allora via di pesce, cazzo se è buono! Non pranzerò, ma poco importa, la laguna ci aspetta, azzurra e cristallina come poche acque che ho avuto sotto ai miei occhi.
Una distesa enorme di sabbia chiara, solo qualche metro di profondità, finché il colore non si fa più scuro, più intenso e si sprofonda in uno dei vari Cenotes, fino a 90 metri sotto il livello della riva. 90 sono abbastanza per tuffarsi con corde, trampolini, dal tetto di un ristorante abusivo a forma di nave o semplicemente dai rami degli alberi. In silenzio, senza calpestare rocce e natura, arriviamo fino alle altalene in mezzo all’acqua. Non c’è nessun rumore molesto, non si sentono motori, non c’è la musica alta, nessuno grida, il sole non abbronza più, scende lieve dietro di me, dietro a questi due musicisti di Los Angeles che stasera suoneranno nel forte della città. La pace.

Non faremo in tempo a sentire i due musicisti perché dopo aver salutato tutto il Van, gironzolando alla ricerca di un ristorantino economico e tipico, mi cade l’occhio su un furgoncino, sul parabrezza spicca chiara la scritta “Un paraguayano rodando el mundo”. Fermi tutti, qui devo vederci chiaro.
Vicino al portellone c’è Carlos, un nonnino che due anni fa, senza nessuna dama che lo seguisse, ha deciso di vendere un camper che non sarebbe stato abbastanza compatto per tutti i km che aveva intenzione di fare, è andato in pensione, da Asuncion è sceso fino alla punta estrema dell’Ushuaia e da lì è risalito. Alla scoperta dell’America Latina, della natura più sperduta, delle persone, della fame, dell’ingegno, delle priorità, dell’umiltà. Non è mai troppo tardi per imparare no?
Questo mio viaggio ha due grandi falle, mi fa notare: il tempo ed il budget. Quando l’orologio gira ci stressiamo, ci lasciamo prendere, corriamo. Quando abbiamo un budget viviamo in funzione di quel limite, di quel tetto massimo, invece di trovare le priorità, d’inventarci come modificarlo in base alle nostre esigenze, alle esigenze del luogo in cui ci troviamo. Carlos ha iniziato a fare braccialetti in macrame, ha stampato degli adesivi, ha personalizzato delle casaettine di fiammiferi e li vende, accetta offerte. Il tempo non esisteva, non ho nemmeno tolto lo zaino da quando ha iniziato a parlarmi, non sentivo il peso, la fame di qualche minuto prima, ero affascinata, incuriosita, un po’ gelosa, un po’ codarda. Spero che questo intreccio di cotone colorato che mi ha legato al polso mi ricordi sempre chi sono, cosa c’è oltre, al di fuori. “Ho vissuto tutta la vita affianco a persone che gioivano per l’arrivo del venerdì e s’intristivano quando tornava il lunedì. Perché aspettare il venerdì? Cosa aspetti a vivere la tua di vita? Non credere che quando questa finisca ce ne sia un’altra, è una scusa, un’illusione, devi prenderti questa”. A pensarci bene lui ha aspettato i 65 anni e la pensione per prendersela, parla per esperienza, perché se tornasse indietro si comporterebbe diversamente? O perché adesso, con queste condizioni, è quello che si sente di consigliare?
La prima cosa che mi ha detto è che nessuno lo accompagna, lasciando trasparire che una compagna d’avventura sarebbe ben accetta, ma “tutti mi fanno i complimenti, mi dicono wow, che bello, ma nessuno si è aggregato”.
Non so perché ripensandoci mi viene in mente solo Angelo, quel rasta che ha tagliato e quanto gli starebbe bene questo furgoncino. Quello che penso è che non sarei pronta però, non adesso, non così e non so se lo sarò mai. Pronta a lasciare tutti. Perché alla fine, anche lui, anela per una compagna di viaggio. Anelo solo al pensiero.

 

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14’000 km non mi separeranno da te, CASAle – Buenos Aires pt.3

Mezzanotte passata, in quel di Buenos Aires, mi metto a testa in giù sul letto, appoggiata al muro e faccio due esercizi per la circolazione, guardando Instagram.
Mia sorella ha fatto un video ad un ragno enorme che alberga affianco alla seconda porta di cas… no. Mi rendo conto che oggi sono usciti da quel cortile 126 scatoloni contenenti stoviglie, cornici, apparecchi tecnologici di vario genere, vestiti e la mia vita.
E’ parte anche questo del gioco, ritrovarsi a 14’000 km da casa e doverla salutare, chiudere, inscatolare.
Un giorno diventerà facile, per ora non lo è mai stato.

Quando ero a Siviglia avevo staccato tutto, l’Italia non esisteva più, sentivo te e nessun altro praticamente. 
Qui non è così, ho un sacco di cose in ballo là, la casa affittata a Milano, la nonna, aggiornarmi con le ragazze, rispondo sempre ai messaggi, con i miei tempi, ma rispondo, Fiore che si avvicina ai 18, Arabella che si trasferisce a Genova… 
Oggi hanno fatto il trasloco, casa a Casale è vuota e non riesco nemmeno ad immaginarla. La casa dove sono cresciuta, dove ho fatto l’amore per la prima volta, dove i miei si sono amati, dove hanno fatto nascere Arabella, dove ho festeggiato un sacco di compleanni, rifugio di serate tra amici, ha chiuso i battenti. Con tutti i divani rivolti verso la TV ed i film più stupidi della storia, incontri pomeridiani al piano di sopra, davanti a Netlog, con amiche del cuore che ora sono solo vecchie conoscenze, è stata un po’ la casa di tutti. La casa che ha visto la separazione dei miei genitori, le lotte di davanzale tra mamma e nonna, la porta sul pianerottolo che è stata sbarrata con gli anni, la casa da cui Fiorelisa è scappata, io dopo di lei e ora anche mamma e Arabella. 
Non c’è più nessuno. 
E sento il suo rumore. 
I miei piedi con i calzini che entrano di soppiatto la sera tardi, le luci spente, ma tutto è illuminato solo dalla Torre e dai suoi colori. Prima un giallo fisso, ora sfumature. Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Rintoccano le campane più intuitive della storia e cado.
Lorenzo dice che lì, tra il primo cortile ed il Pantagruel, c’è lo scorcio più bello di Casale. Quello scorcio che io ho sempre potuto comodamente ammirare dal divano di casa mia.
Posso sentire le risate provenienti dalla cucina, le urla dei miei, il profumo delle ultime lasagne al pesto cucinate da mamma, quella sera dopo piscina, il campanello finché funzionava, le mie amiche gridare dal cortile, vedo ancora tutti i ragazzi di ESN dormire per terra, i miei 18 anni, quando mi sono trasferita al piano di sopra insieme alla mattonella di Zac Efron, le cenette con le ragazze, il compleanno di Elena, il mio ritorno da Siviglia, la camera dei giochi con le bimbe, la tenda delle principesse, l’albero di Natale illuminato, le foto davanti allo specchio grande con le piccole ancora sdentate, tappare le orecchie ad Arabella. E prima ancora mamma in lingerie, nel bagno rosa, con il pancione, papà che le fa le foto. La nonna che prepara il pranzo di Natale, cugini da tutte le parti. I cenoni di Natale con gli insegnanti della scuola. I maghi ai compleanni delle bambine. Arabella e la piccola Franci, tutte le lotte perché potessero giocare insieme. Dormire nel letto di mamma, prima di partire. Bigiare nascondendoci al piano di sopra, senza che la domestica ci scopra, tecnica collaudata e poi ripresa da Fiore qualche anno dopo: il sangue non è acqua. La tesi, rinchiusa in casa. Mia sorella che nasconde tutti i manga dentro la caldaia. L’armadio dei regali. Windows 98. Tommi ed Edo in cortile. I Fendi al completo in complotto sul divano. La testa dell’orso quando non era nel baule di Simo. Pizza da me? Colazione a domicilio. La messa della 10.30, la domenica, svegliando tutti chiudendo il portone. Quella maledetta bottiglia di Fragolino che presi dal tappo ammaccando la piastrella della cucina. Gli album delle fotografie, impilati in ordine cronologico, da toccare con cautela. Intrufolarmi nel letto con Ara e Fiore, la domenica, per svegliarci ed infastidirci. La mia nuova cameretta tutta rosa, sfrattando quella dei giochi. La musica del Pantagruel dalla finestra, il profumo di Maria. Grace che ci viene a trovare. Le macchine al pascolo. I ponteggi fino al campanile, arrampicarsi insieme a Clelia ed Ylenia, per il tramonto più bello. Piadina o Kebab? Ancora uscivamo tutte assieme. Agnese che la sera prima dell’esame di maturità viene da Falde a sentire il discorso, perché io ero in pigiama ed agitata. Ale e Je in gita con me. Pedro e Monse, dal Messico a Ceuta, a Casale Monferrato. Tutti i miei più grandi amici di Santa a prendere multe per i miei 18. Ciotti, immancabilmente fan della notte di Halloween casalese. Gli anni in cui si regalavano sempre i poster da appendere, finché, un bel giorno, non mi è stato regalato un planisfero.
I ricordi arrivano a fiumi e mi travolgono. Potrei continuare a scrivere per tutta la notte.

Il mondo le cambiava attorno.
Giovannacci chiudeva, la locanda Rossignoli riapriva, il barbiere mancava e Falde arrivava, il profumo di Krumiri in sottofondo.
E noi crescevamo.

Sto annegando nelle lacrime. 
Non posso immaginarla. 
Non posso immaginarla vuota. 
Non posso immaginare di non averla salutata per bene. 
O forse meglio così, la ricorderò intatta, piena. Colorata, come quando studiando arrivava il riflesso della finestra sul tavolo della cucina, nero, che dava modo di vedere anche l’azzurro del cielo. 
La casa in cui ho preparato tutti gli esami importanti della mia vita, da quello di terza media, alla laurea… 
Ci sono lati positivi e negativi dell’essere una zingara. Stasera, ora, dopo aver visto le storie di mia sorella, felice del suo nuovo inizio, di un nuovo posto da chiamare casa, sento la nostalgia della mia, che non c’è più definitivamente. 
Vuota, mi aspetta, perché raccolga le mie ultime cose e la chiuda, per sempre, insieme a quella bambina che a 8 anni ha messo piede a Casale, a quella ragazza che aveva trasformato la cucina nell’ufficio di Stay, a quella ragazza cresciuta che ora forse dovrà diventare donna a tutti i costi. 
Tornerò e non solo mi toccherà laurearmi un’altra volta, ma anche chiudere e salutare per sempre la casa della mia infanzia, adolescenza e gioventù. 
E allora scusami, ma non riesco proprio a smettere di piangere.
Che colpo al cuore.
Che naufragio. 

In bocca al lupo alla principessa, che tutte le vecchie rinunce siano solo futuri guadagni in termini di sorrisi. 
Ti auguro un’adolescenza splendida, princi, in questa città nuova, in questa nuova casa. La mia rimane Casale, per sempre.

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Qual buon vento – Buenos Aires pt.1

Ho appena finito di vedere un film bellissimo, si chiama “The Intern”, “Lo stagista inaspettato” in italiano. 
Vado a dormire con il buon umore, domani è l’ultimo giorno di agosto e ho grandi progetti. 

Voglio che questa esperienza sia diversa, arricchirla e arricchirmi, quindi farò un elenco di propositi mensili, degli obiettivi, dei goal. Siamo ancora giovani, possiamo reinventarci, scoprire, curiosare, provare.
Io inizio da qui. 

Sono andata a lezione di yoga lunedì e hai presente come le fanno vedere nei film? Luci calde, musica da yoga, incenso, a metà tra il sacro ed il profano? Beh è proprio così, è un culto, è un rito, è come una preghiera, però non è sufficiente avere le mani giunte. Per pregare in yoghese devi metterci tutto te stesso, abbandonarti completamente, lasciare veramente fuori dalla porta tutte le preoccupazioni, cercare dentro di te le soluzioni più semplici, prendere contatto con il tuo corpo e con te stesso. 
E poi la meditazione. 
Hai presente quando dicono che solo una persona veramente devota è in grado di galleggiare nell’aria e alzarsi e svolazzare a gambe incrociate? Beh a questo livello non sono arrivata, però la meditazione è stato qualcosa di veramente extra corporeo, un’illuminazione. Il mio corpo era lì, sdraiato in maniera disordinata su quel tappetino, il cuscino sotto al ginocchio, una copertina in pile bianca, una mascherina con i pallini sugli occhi, ma io ero da un’altra parte. Il mio corpo era leggero, morbido, fluido e mi lasciavo trasportare dalla melodia, disarmata. Come quando da bambini ci cantavano la ninna nanna o ci raccontavano una storia, ecco, quello era il livello. E credimi, per raggiungere quella sala di yoga c’è un cavalcavia degno delle peggiori zone di Caracas (poi te lo dirò se fanno veramente così paura i bar di Caracas), nonostante sia abbastanza centrale, le luci calde delle vie di Buenos Aires non sono così rassicuranti. Anzi. Sono il set perfetto di un film horror. Soprattutto perché è facilissimo passare dalle vie delle strade principali, illuminate a giorno, al buio caldo e soffuso.
Beh, dopo quel cavalcavia, più in basso dell’altezza della strada, c’è il numero 40, una porticina e una ragazza gracile con lo smalto nero che, aprendo la porta, la prima volta che ti vede, ti bacia. Si, ok, qui lo fanno tutti, ma lei ci ha messo più amore.
Ecco, insomma, proprio lì dentro, in un posto forse tetro, mi sono sentita al sicuro e disarmata come nella culla della principessa dove io e le mie sorelle siamo cresciute a suon di Fra Martino e racconti di mamma e papà. 

Non sono ancora convinta, probabilmente farò Crossfit due volte a settimana e yoga una sola, come se fosse un premio, un regalo a me stessa. Questo lo pianificherò domani, prima che arrivi settembre.

Tornando al film, basta che tu legga la trama per capire perché mi sia piaciuto. Una cucciola randagia intraprendente, di cuore, indaffarata, nevrotica, amorevole, che impara a fidarsi davvero, sotto l’ala dell’esperienza, della vecchiaia, della calma, ha trovato il suo yoga in De Niro. E cosa non meno importante ha lanciato una start up della madonna (lo devo mettere maiuscolo? In realtà non volevo essere blasfema, solo l’avrei detto così se ti avessi avuto qui davanti. Se ti avessi davanti muoverei anche le mani come una matta, con i palmi aperti, toccando il cruscotto, facendo disegni nell’aria e questo era un inciso ecco).

Buenos Aires è bella, mi ricorda Milano al principio, quando sono arrivata e dovevo imparare ad amarla. In realtà non assomiglia per niente a Milano, è il mio modo di guardarla che mi ricorda gli occhi che mi hanno accompagnata, quelli primavera/estate 2017. 

A proposito di collezioni, oggi sono andata ad un incontro splendido in Università, era una “charla” che qui è un modo molto conviviale di chiamare una conferenza, potrebbe essere l’equivalente di workshop, ma in realtà è un finto workshop come sempre tranne che alle school, però questo è troppo ESNenniano quindi non lo capiresti comunque. Il titolo era “la comunicazione della moda – la trasformazione del linguaggio della moda nella contemporaneità”, c’erano 3 giornaliste che si sono dovute reinventare con l’arrivo di internet, dei blog e poi di Facebook e di Instagram e di tutto quello che uso io insomma. Davano una visione ampia anche sulle nuove posizioni lavorative che sono nate sull’onda del web, tutto molto bello di conseguenza ho pensato che nel secondo semestre potrei cercare uno stage.

Se in Spagna mi aveva dato un grande aiuto a capire cosa non volessi fare nella vita, magari in questo emisfero l’impulso potrebbe essere in direzione opposta!
Ma questo rimane un buon proposito per il prossimo semestre, quindi non mi devo portare troppo avanti, va nel box del lungo termine.

A proposito, oggi sono anche tornata al box. Ovviamente non nel mio bellissimo dietro alla Sogegros di Alessandria, bensì ad uno nuovo porteño, si chiama BIGG ed è molto più metropolitano, ciò nonostante mi ha dato modo di confermare il mio sospetto: un ampio campione di segretarie delle palestre oltre che un dito in culo ha anche un leggero ritardo mentale. 
Sorvolando sul dettaglio, sono abbastanza stanca, anche se non si direbbe dall’orario e ho tutte le parti appuntite del corpo ustionate dallo sfregamento (sono sicura che ci sia una parola che indica gomiti e ginocchia, ma non riesco proprio a ricordarla). Beh non serve nemmeno dirlo, dopo Crossfit mi sento rinata, orgogliosa e fiera di me stessa, soprattutto completando il pomeriggio merendando (perché non esiste anche in italiano questo verbo? Lo voglio importare, è il mio preferito) con una banana. 

Ok, sono sicura che a questo punto, quando domattina leggerai queste righe, inizierai a pensare che stia nuovamente partendo per la tangente (o forse non sono mai stata dritta) però (ok sicuramente sono sempre stata un po’ stranina) in realtà ho solo voglia di riassettare tutto, di raddrizzare un po’ questa tangente e guardare, a porta spalancata, non dallo spioncino, il mondo e me stessa al suo interno.

In realtà avrei voluto anche parlarti del fatto che qui girano veramente tante droghe, di qualsiasi tipo e sai che c’è? Che non ho più voglia nemmeno di motivare il perché non bevo, di rispondere alla solita cantilena “Ma davvero?” “Ma perché non ti piace o…?” “Ah quindi sei astemia?” “Ma hai mai provato?” “Nemmeno la birra?” sorrido, “scelte” e giro i tacchi. Non mi piacciono quegli occhi da scienziati che osservano un topo in gabbia, io non sono in gabbia, saranno le vostre le gabbie a forma di bottiglia! A me fa cagare anche la coca cola, non mi sforzerò di certo per farmi piacere qualche intruglio schifoso di quelli lì che ti servono in discoteca. Perché poi? Va bene così. Se sono presa male sto a casa, se non mi diverto me ne vado, se sono stanca bevo un te, se ho paura sudo freddo, se non ho il coraggio di fare qualcosa stringo i denti. A me va bene così. Mi piace sentire tutte le emozioni, vive, ustionanti, sulla pelle, nella testa, fino al cuore.

Dovrei aggiungere qualche dettaglio sulle persone che ho deciso di frequentare, su quelle che invece saluto dopo cinque minuti e su quelle che mi hanno già accolta nel loro mondo. Vorrei anche dirti alcune cose sulle associazioni e su un volontariato diverso da quello al quale sono abituata, ma devo ancora approfondire l’argomento, quindi per ora mi fermo. Lo appunto, così me lo ricordo al prossimo giro.

Credo che ad aggiornamenti per oggi siamo a buon punto. Avevo bisogno di svuotarmi un po’ e lo yoga non era forse sufficiente, non fa rumore e io sono una casinista. 
Ma mi placherò un pochino, sarà nei propositi che stilerò domani, ti aggiorno!

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