Estella – Los Arcos 22km

“Your energy is magnetic, your positivity too”. Stringo forte le parole dolci di stamani, che sembrano uscire dagli occhi più che dalla bocca della mia compagna di viaggio. Stringo forte anche il tutore sul ginocchio destro, che non ha mai smesso di fare male da ieri, nonostante massaggi e voltaren. Ma c’è chi sta peggio: Jonathan non può continuare, dopo un controllo effettuato per precauzione all’ospedale di Pamplona, gli hanno trovato una lesione al menisco che potrebbe aggravarsi se continuasse a camminare. Torna in Canada. È ancora, c’è chi stamattina è entrato nel panico perché non trovava più il portafoglio.

Per quanto tempo pensate di poter perdere un portafoglio sul cammino di Santiago? Ve lo dico io. Un paio d’ore. Mentre la tristezza del povero sventurato cresceva, il mio cervello macinava: ho chiamato l’ostello di ieri, l’ostello del l’altroieri, il 112, la polizia di Estella e lasciato una segnalazione sull’app AlertCops, come consigliatomi da un hotelera. In 10 minuti sono stata richiamata, una volante sarebbe venuta a raccogliere la denuncia direttamente nel paesino in cui stavamo camminando in quel momento. Prima ancora che arrivasse la polizia, la guardia civile di Estella mi ha richiamata: hanno ritrovato il portafoglio ed una volante ce lo avrebbe portato. Abbiamo lasciato i nostri dati e ci siamo messi a chiacchierare con la polizia del cammino. C’è una polizia che si dedica solo ai pellegrini, sappiatelo. La scena è stata alquanto comica, a punto da trovarci, nell’attesa, a scattare foto con i poliziotti, tra una traduzione e l’altra. Nota negativa, il portafoglio era vuoto. O meglio, c’erano tutti i documenti, ma non i 300€ in contanti che erano al suo interno. Non che si possa avere tutto dalla vita, ma quante volte vi è capitato di ritrovare un portafoglio perduto in meno di 1 ora?

“Siamo qui per questo” mi dicono i 4 poliziotti accordi in nostro aiuto. 4. Quattro. Non mi sono mai sentita più sicura.

L’eco delle campane, il fruscio dell’erba, un trattore nei campi, il rumore dei passi. Con meno fatica di ieri, ma dolore costante, siamo arrivate a Los Arcos, un paesino tra i più desolati della storia dei paesini. Il nostro ostello è ufficialmente il più brutto di sempre, con le pareti incrostate, gli spifferi alle finestre, letti cigolanti, ovviamente materassi di plastica, docce con tende appiccicose e piene di capelli. Un italiano, Luigi, mi confessa di aver visto anche un bicho. Non ne farò parola con nessuno, ma durante tutta la notte mi perseguiterà l’idea di essere attaccata da pulci presenti nella coperta sudicia che mi hanno dato.

Domani dovremo percorrere la tratta più lunga tra tutte quelle percorse fin ora, 27km fino a Logroño, proprio oggi doveva capitarci questo ostello? Doccia, crema, gambe all’aria, vasellina e stretching finché non sentiamo gridare “fanno i massaggi!” Ci fiondiamo al piano di sotto ed inseriamo i nostri nomi su una lavagnetta di plastica. Marghe è la prima, ma quando scopriamo che l’hotelero che ci ha fatto il check in è anche il massaggiatore – probabilmente anche lo chef, il meccanico e non si sa quante altre cose – tituba quanto basta per lasciarmi passare.

Immaginate di camminare per 8 giorni, più di 20km al giorno, con qualsiasi condizione climatica, uno zaino in spalla e poi di farvi toccare dalle mani di un massaggiatore. Probabilmente fosse stata la chef, il barista o la nonna del paese, sarebbe stato piacevole uguale. 12€ di letto, 5€ di donazione per il massaggio. Probabilmente il valore dei due prodotti si sarebbe potuto tranquillamente invertire.

Io e Marghe finiamo per prime e raggiungiamo il gruppo di Linda, composto da tanti inglesi tra i 50 ed i 65. Oggi Linda compie 56 anni, il sorriso soddisfatto di chi li vive con serenità. Ha 3 figli a casa, 29, 27 e 25 anni, erano preoccupati che non avesse nessuno con cui festeggiare. Si è regalata un hotel per la notte e siamo una decina ad affollare questo bar minuscolo. Il sonno arriva presto e ci salutano velocemente per abbandonarsi ai loro letti, spero meno pulciosi dei nostri.

Io e Marghe facciamo aperitivo con un piatto di jamon, uno di prosciutto, sangria e pane. Ci perdiamo tra i ricordi del catechismo, dei pomeriggi da bambine, delle domeniche da chirichette. Mi fa specie che in una città come Parigi sia riuscita a vivere le stesse consuetudini di una ragazzina di paese. Ci ritroviamo d’accordo sul fatto che sia davvero difficile essere cattoliche, alla nostra età, in questo mondo. Professare un cattolicesimo più moderno e meno estremista, avere fede, amare e rispettare il prossimo e la vita, ma al contempo non annullarsi. Poterla condividere con persone che la pensano come te. Poterlo fare senza timore di essere giudicare da occhi indiscreti.

A Parigi, in quel piccolo grande mondo al profumo di baguette e croissant, in cui ho lasciato un pezzo di cuore, mi rendo conto di avere ora anche una nuova amica. Sveglia, intelligente, profonda e tanto simile a me. Racconteremo a nostri bambini che la zia francese e la zia italiana si sono conosciute in un bar umido sulla strada verso Santiago, mentre un gregge di pecore invadeva la strada del cammino che avrebbero dovuto percorrere.

La cena è una delle peggiori della storia. Io non rischio, vado sul sicuro con un’insalata di pomodori. L’aspettativa è sempre quella di trovare una bella ciotola piena di pomodori, la realtà è che mi ritrovo un pomodoro tagliato a rondelle, distese su un piatto piano. Una pena. Ma non è questa la parte più penosa ed al contempo ridicola, bensì il servizio. Una signora sulla 40ina, con i capelli corti e le forme morbide, che gestisce sia il bar che questa stanzina che prende il nome di ristornante. Ci sono persone burbere e poi c’è lei, che incarna l’etimologia del termine burbero. I piatti lanciati sul tavolo. Il nervosismo ad ogni richiesta. Così burbera da risultare divertente. Perché cosa si può fare, se non ridere, di fronte ad un po’ di durezza?

Prontissimi per questa nottata di gaudio. Prevedo già la fatica. Uno già fa fatica tutto il giorno, poi deve far fatica anche per dormire. Nemmeno a dirlo, 3 minuti dopo esserci infilati nei sacchi a pelo, dalla stanza accanto proviene un gridolino tonfo: niente russatori stanotte, solo gente che parla nel sonno. Eravamo così contenti di dividere la stanza con sole donne! Chi è ancora sveglio scoppia in una sonora risata. Anche in questo caso, che cosa possiamo fare? O la svegliamo o cuffie nelle orecchie, sorriso pronto all’uso e tanta pazienza.

Buonanotte Los Arcos. Ancora non lo sai, ma diventerai il nostro termine di pagandone per identificare luoghi orrendi. Mi dispiace, la tua piazzetta è anche carina.

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Puente de la Reina – Estella 22 acciaccati km

Il vento freddo mi sospinge, da dietro. Un raggio di sole fa capolino sul mio viso. È forse la giornata più fredda di tutte, ma questi sporadici soffi di calore inaspettato, regalano un grande sollievo.

Sto scoprendo l’esistenza di muscoli di cui non ero a conoscenza. Davanti al polpaccio, cosa c’è? Non so come si chiami, ma tira.

Il vento accarezza l’erba e sembra una mano sul velluto, lo modella e gli cambia colore. Ho gli occhi così pieni di bellezza che “Wonderful life” è l’unica canzone che riesco ad ascoltare ora.

La metto in loop. I medesimi bulbi si gonfiano di gioia bagnata.

Mancano una decina di km all’arrivo, a Estella, siamo a metà strada e ce la stiamo prendendo comoda. Sono rimasta indietro, come al solito, perché mi sono fermata a parlare con 2 signori spagnoli ed una signora dell’Alsazia, che vivono tutti a Strasburgo. Margaret è molto indietro oggi, ha avuto un dolore fastidioso al tendine per tutta la giornata di ieri ed oggi ha deciso di ridurre il ritmo. I ragazzi invece non mollano e ci aspetteranno sicuramente al prossimo bar.

Stanotte non hanno dormito per niente bene, mentre io e lei avevamo la nostra cameretta padronale, silenziosa e buia, loro si sono goduti 3 diverse melodie prodotte da russatori seriali, uno dei quali è stato scelto appositamente da me: mentre stavamo per entrare nell’ostello mi sono messa a chiacchierare con questo signore di Granada che non trovava posto per la notte e gli ho naturalmente offerto il posto letto di Jonathan. Avrei dovuto chiedergli se russava, mi hanno rimproverata. Ovviamente russava. E – a detta loro – non aveva neanche un odore piacevole, in quanto fumatore accanito. Mi sono presa giustamente un po’ di insulti.

“Todo fluye” significa “tutto scorre”, una versione post moderna di “panta rei” che noi italiani fortunati ed acculturati abbiamo avuto la possibilità di sentire per la prima volta al liceo. Su questo cammino todo fluye. Luigi me l’aveva detto prima di partire, di non preoccuparmi di niente e così ho fatto, ho lasciato a casa un sacco di cose, non ho prenotato ne letto nulla, se non il minimo indispensabile, non ho scambiato letti o piatti, mi sono lasciata investire dal destino.

Prima di partire un ragazzo con cui ho scambiato un paio di parole su Tinder, che per casualità era tornato dal cammino da poco, mi ha mandato la foto di una pagina di non so che libro, con alcune righe sottolineate. Dicevano “comunque, se mi sforzassi come in altre occasioni, forse un giorno arriverei a capire che le persone giungono sempre al momento giusto nei luoghi dove sono attese”. Andrea, si chiama, ha classificato queste parole come quelle che avrebbe voluto ricevere prima del cammino e me le ha gentilmente regalate. Ora le comprendo più di allora.

Durante l’ultimo tratto di questi incredibilmente faticosi 21 km, Alex mi ha chiesto se penso che ci saremmo comunque incontrati se non avessi per sbaglio preso il suo letto a Roncisvalles. Ho confessato di non aver accidentalmente fatto nulla, ma di aver scambiato di proposito il mio letto al piano superiore con il suo, perché avevo proprio voglia di stare in quello di sotto, senza sfidare troppo il destino, al massimo mi avrebbe chiesto di spostarmi. Invece non l’ha fatto. Dettaglio che ha mostrato dal primo momento la sua personalità generosa ed introversa.

Si, ci saremmo trovati comunque perché quello era il punto in cui i nostri fili rossi erano destinati ad intrecciarsi, sopra o sotto, lì. Perché e come ci siamo scelti, ancora non mi è chiaro, ma il fatto che continuiamo a leggerci nella mente è la riprova che “team” è il termine giusto per quello che siamo diventati.

È così che mi torna in mente quella foto, quella citazione e la cerco di nuovo tra le chat del telefono, mentre provo a favorire la circolazione lanciando le gambe in alto. Non so assolutamente perché, ma oggi è stato doloroso, più che faticoso. Sono partita con la ginocchiera a sinistra, ho finito con la ginocchiera a destra. La pianta del piede mi tira terribilmente, il ginocchio è caldo al tatto e l’anca iniziava a fare i capricci già prima dell’ultimo km, che ho scandito con un countdown in metri ogni dieci passi. Un’agonia.

Si potrebbero leggere tante cose sul Cammino, vedere film, documentari, sentire racconti, ma nulla è sufficiente a farti immaginare la fatica, non si riesce a figurare nemmeno sforzandosi. In qualche modo, per qualche ragione, sono felice di provarla. Contenta di sentirla sulla mia pelle, un’esperienza nuova, accompagnata da una forza e da una positiva costante, uscite naturalmente da non so dove, senza bisogno di alcuno sforzo. Come il dentifricio da un tubetto nuovo, nessun trucco, nessun inganno, una naturale forza di cui prima non c’è semplicemente mai stato bisogno.

Quante cartucce interiori ho ancora da scoprire? Che curiosità.

Per la prima volta dall’inizio di questo viaggio mi sono abbioccata un attimo nel pomeriggio. Dopo la doccia sono caduta in uno stato di trans profondo, sotto le coperte del primo vero letto del cammino. Un letto, fatto con un materasso ed un cuscino, non in plastica e con un vero piumino, in cotone, pulito e profumato. Ieri ho prenotato quest’ostello su booking che di ostello aveva solo il nome, tutto il resto è più vicino ad un hotel. Un lusso per il cammino, ma sembra che anche gli altri pellegrini abbiano avuto la stessa fortuna con le loro dimore, tutte bellissime.

Dopo un po’ di stretching, un’incidente diplomatico Estella-Parigi ed uno scambio di ciabatte, siamo usciti a fare due passi. Estella è la città più viva che abbiamo visto fin ora e, come in tutte le precedenti, sono bastati un paio di passi per incrociare altri camminatori. Casualmente abbiamo formato un bel gruppetto e siamo andati a prendere una birra nella piazza principale. È bastato sedersi per un paio d’ore per allungare la tavolata con qualche tavolo: ogni faccia conosciuta che passava prendeva posto ed ordinava la sua cervecita.

Il signore davanti a me si chiama Jonathan, si, anche lui, ha più di 60 anni e sta facendo il cammino per la seconda volta. Ha una conchiglia stilizzata sulla gamba per non nasconderlo e sta per diventare nonno, di nuovo, ma questa volta di 2 gemelli. L’ultima volta che è arrivato a Santiago, mentre valicava le porte della città, è diventato nonno per la prima volta. Parla lentamente e con il cuore in mano. Mi dice prevedeva di arrivare fino a Pamplona e prendere un bus per Burgos, per godersi una parte di cammino più interessante di questa, fino a Leon, ma ha conosciuto Linda e l’altro signore alla mia destra (di cui purtroppo non ricordo il nome) ed ha deciso di continuare con loro. Anche per lui la compagnia è diventata più importante dei km. Ci tiene a farmi notare che dopo 10 giorni di cammino sei veramente immerso è coinvolto, ricominciare dividendolo come farò io è più faticoso e doloroso, fisicamente e moralmente, più vai avanti, più il corpo si abitua, più vuoi andare avanti. Salutare le persone a cui ti sei affezionato in 10 giorni, per poi affezionarti ad altre, è anch’esso doloroso. Insomma, era dispiaciuto per me. Lo sono un po’ anche io, ad essere sincera.

Dopo una profonda e per niente silenziosa insistenza da parte di Alex, ci alziamo e andiamo a cercare qualcosa per cena. Per strada raccogliamo tutti i pezzi, anche chi aveva bisogno di qualche momento in solitudine, chiedo indicazioni per mangiare qualcosa e ci consigliano un bar in cui troviamo i brothers, ci sediamo con loro.

Quante volte vi è capitato di essere in giro con 3 amici, incontrarne altri 2 e semplicemente sedervi al loro tavolo? “Volete unirvi” non è forse la più bella espressione di accoglienza e generosità?

È strano. Siamo tutti qui, con il cuore aperto, a condividere gioie e dolori, ma contemporaneamente nelle nostre teste roteano pensieri tutti nostri che non condividiamo, ma che chi ci sta accanto percepisce. C’è un sesto senso collettivo molto rispettoso. Una mano sullo zaino, un pezzo di cioccolato, una parola, una domanda, un sorriso. Nessuno viene lasciato indietro, anche se rimane indietro, tranne se vuole essere lasciato indietro.

C’è qualcuno che vuole? Al 100%? Mi sono chiesta più volte perché non abbiamo pensato di fermarci e rallentare, per restare con Jonathan. Avremmo potuto, rinunciando ad un po’ di km. Forse lui non ci avrebbe lasciato, ma questo pensiero non ha smesso di rotearmi nella testa per tutto il giorno. Ho anche pensato di tornare indietro, o di continuare e poi fermarmi a Logroño, così da coincidere ancora una volta. E ancora, di prendere un aereo per un weekend e raggiungerli di nuovo. Questo è il mio cammino, l’ho iniziato, loro sono i miei compagni di viaggio, in questo momento fatico ad accettare il fatto che non arriverò alla fine insieme a loro, che di fronte a Santiago, in quella foto, non ci saremo anche noi, che quelle lacrime siano da conservare per un altro momento, da condividere con altri umani senza gli occhi chiari, senza trecce, senza claudicanti francesi, canterini inglesi, fratelli decoupage, senza accento british, diversi, magari stupendi, ma non loro.

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Pamplona – Puente de la Reina 24 km, 24 litri di lacrime

“Non posso continuare, mi fermo alla prossima città, mi fate una foto con lei?”

Mi ero fermata a parlare con una signora italiana, di Firenze ed i miei 3 ragazzi mi stavano aspettando. Harry ed Alex hanno trovato Jonathan su una panchina, a metà di una ripida discesa, dolorante.

Tra un “no man, come on” e l’altro io avevo già capito. Incredula, le lacrime hanno iniziato ad uscire dai miei occhi a fiotti, rivoli salati mi hanno inondato le guance, mentre il suo sorriso dolce e perfetto mi proteggeva dal vento.

Non mi ricordo un’altra volta nella vita in cui ho avuto quello che non riesco a descrivere diversamente se non con il termine “inception”. Non è un amore a prima vista, non fraintendete, ma una connessione letale. Dal primo momento in cui io e Jonathan ci siamo guardati negli occhi non c’è stato più bisogno di una parola per comprenderci, ci siamo letti ed ascoltati, apprezzati e uniti.

Stamattina ho visto una signora, nello stretto corridoio che collegava i bagni alla cucina, abbracciare un’amica che avrebbe preso un’altra strada. Aveva gli occhi lucidi e non era congiuntivite. L’ho conosciuta lungo la strada, si chiama Beatriz, è colombiana, ma vive in Florida. Mi ha detto di ricordarmi di lei quando partorirò, mi ha detto che questo cammino è come un parto: una fatica mostruosa, ma per la quale sarai grata per tutta la vita. L’ho guardata per un secondo mentre le si bagnavano gli occhi e mi sono prefigurata il momento in cui avrei dovuto salutare il mio piccolo gruppo di Pellegrini. Già mi vedevo piangere come una fontana, ma non pensavo sarebbe arrivato così presto.

Harry ha messo la playlist giusta, Alex ha preso lo zaino di Jonathan ed ha iniziato ad incoraggiarlo. Sono due persone così diverse e che apprezzo così tanto.
Io e Jonathan abbiamo rallentato il ritmo e siamo rimasti appositamente un po’ indietro rispetto alla carovana. Abbiamo percorso gli ultimi km insieme, dicendoci tutto quello che avevamo pensato ed ancora non detto in questi 5 giorni. Controllando se gli sguardi che avevamo letto, fossero realmente stati interpretati nel modo corretto. Avrei voluto lasciargli qualcosa, un ricordo, un oggetto, qualcosa da guardare, da toccare, per non dimenticare. Ma non ho niente. Abbiamo fatto alcune foto. I’m so glad that I’ve met you.

Tira un vento incredibile ed ho lasciato indietro la mia squadra per sfogarmi un po’. Il naso mi cola ed attorno a me si stagliano campi colorati.

Non so quanto raccontarvi di lui perché, se da una parte voglio prendere nota di tutto e non dimenticarmi niente, dall’altra voglio custodirlo con rispetto ed un po’ di gelosia.

Ho fatto notare a Beatriz che questa mattina l’ho vista piangere. Mi ha detto che si dispiace, che è troppo emotiva e vorrebbe essere più forte. Cerco di analizzare queste lacrime, questo senso di gratitudine misto a malinconia che risuona dentro di me, come un singhiozzare.

Jonathan mi ricorda mia mamma, mio papà e me. La fame di vita. L’intelligenza emotiva. Un cuore grande come una casa. Cazzo stavo sbagliando strada. Mi ricorda il coraggio e la paura. È un amico che vorrei avere vicino. Mi ricorda il timore provato atterrando in Argentina, quando stava per iniziare una nuova avventura che mi avrebbe portata a conoscere nuove persone, da lasciare dall’altra parte del mondo. Nuove persone da amare, sapendo che le dovrai abbandonare. La fortuna ed il timore. La profonda accettazione e la continua voglia di migliorare. L’ascolto, l’empatia. La felicità, l’affetto. Tutto in uno.

Sono arrivata a Muruzábal, c’è un cartello giallo che lo indica. Mi scappa la pipì e devo smetterla di piangere.

Penserò al tuo sorriso sempre. Ogni volta in cui avrò freddo o la vita non sarà poi così simpatica. Mi mancherai sempre.

Piscio dietro un cassonetto molto moderno. Mi rimetto sullo sterrato. Puente de La Reina, mancano 4,5km. In meno di 1 ora dovrei essere arrivata. Mi fermo, torno indietro un attimo e li vedo, il mio clan in arrivo. Mi fermo ad aspettarli. Con dolcezza mi chiedono se voglio camminare con loro, rispondo di sì e non mi allontano più.

Claudicanti, arriviamo a Puente de la Reina, forse il paesello più bello nel quale ci siamo fermati fino ad ora, non per questo più animato, anche se gli abitanti hanno risate rumorose e contagiose.

Prima che incontrassimo Jonathan, mi hanno condiviso l’idea di prendere un Airbnb solo per noi, l’ultima sera, per mangiare tutti insieme e condividere appieno gli ultimi momenti. Ho trovato questa proposta così dolce che, a ripensarci ora, mi ruba un sorriso. Ho appena perso 4 partire a scala quaranta, con due inglesi ed una francese. Che giornata.

Note da tenere in conto, oltre al misfatto: non ha piovuto davvero, abbiamo percorso il maggior numero di km di sempre, ho trovato le gallette di riso con lo yogurt bianco, la mia triste insalata di pomodori era buonissima, ogni volta che saluto qualcuno per strada il mio clan si mette a ridere (forse perché saluto tutti?), Marguerite è proprio una ragazza sveglia, anche stasera c’erano le lenzuola, dormiremo in una stanza solo io e lei, lontano da possibili russatori. Domani? Noi 4, in una camera tutta per noi.

Ci stiamo forse chiudendo troppo? Mi chiedo, dopo aver parlato con almeno 10 persone nuove quest’oggi. Che incontentabile incontenibile che sono.

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Zubiri – Pamplona, 21 bagnatissimi km

Siri scriviamo: “Avete mai pensato di poter essere felici, in un giorno di pioggia, senza ombrello, camminando nel fango con le scarpe completamente bagnate?”

La ci siamo svegliati sempre prima della sveglia, seppur fosse piccola, la stanza ha iniziato a brulicare di vita già alle 6.30, nonostante mi ostini a puntare la sveglia alle 6.45.

Per rappresaglia ho preso il bagno per prima, saltando giù dal letto a castello mentre la casinista di turno cercava qualcosa in un armadietto. Si dà il caso che la casinista fosse anche la compagna del russatore della stanza. Che combo. Rido mentre lo scrivo, perché sono giorni così sereni che nulla di tutto ciò ha minimamente scalfito la mia calma mattutina.

Nonostante i 4 vestiti che ho nello zaino (ho lasciato uno dei 3 pantaloni nel primo ostello, l’ho già scritto?), non ho rinunciato alla mia skin care routine che dal lontano 2020 porto avanti con costanza. Ho portato lo spumone, la crema per il contorno occhi e MEP mi ha regalato alcuni campioncini in bustina di siero per il viso. Mi lavo il muso, mi incremo, metto due gocce negli occhi, mi vesto come il giorno prima, dopo aver lavato i vestiti e sento in lontananza la mia sveglia suonare. Anche occhi, sveglia prima della sveglia e riposata, nonostante il russatore seriale. Starò forse invecchiando? È invecchiando che si dorme sempre meno no? Ma poi che domanda è, certo che sto invecchiando.

Sto raccogliendo i pensieri su questa giornata chiusa nel mio lettino, in un ostello attrezzato come uno space shuttle. Il mio letto è il numero 8, ho chiuso la tenda della navicella e mi sono infilata nelle orecchie la playlist del cammino di qualcun altro.

Oggi è stata una giornata troppo piovosa per poter scrivere lungo la strada. Ho provato a dettare a Siri un po’ di frasi, ma era poco recettivo.

Dopo la sveglia prematura, ci siamo trovati alle 7.00 con Margarite al bar per colazione. Quando dico “ci” intendo io, lei, Harry ed Alex. Jonathan ha preferito partire senza fare colazione. Si è formato questo piccolo gruppo con naturale dolcezza, abbiamo scelto di legarci prenotando alcuni ostelli insieme. Ci dividiamo, ci allontaniamo, ognuno cammina per conto suo, ma a volte ci aspettiamo. In ogni caso sappiamo che ci vedremo all’arrivo.

Non sento l’esigenza di riempire i silenzi con loro. Succede che si riempano. Succede che vengano inutilmente riempiti. Succede che vengano interrotti da new entry, da altri viaggiatori che si aggregano per qualche chilometro, succede che ci passino per la mente domande personalissime che osiamo fare ed alle quali osiamo rispondere.

Oggi mi sono presa un momento per godermi la pioggia in solitaria. Ho messo su spotify “purple rain” ed ho iniziato a cantare a squarciagola.

Siamo tanti a fare questo cammino, le strade per chi cammina sono spesso sterrati, tratti in cui ci siamo solo noi Pellegrini, ma ciò nonostante si riesce lo stesso, per una strana combinazione dei ritmi dei passi, a ritrovarsi da soli, volendo, per un paio di km.

Testa bassa, schivando le pozze di fango, la terra mi si attaccava sotto le scarpe, spuntando sui lati, appiccicosa come colla. Ogni dieci passi cercavo di scollarla sbattendo i talloni con forza sull’unica parte leggermente rocciosa del terreno. Dopo i primi 2 km ho smesso di cercare di schivare la parte di scarpa bagnata, cedendo senza più resistenze al destino riservato ai miei piedi per oggi: nuotare in una piscina di acqua piovana per 6 ore e mezza.

Riuscite ad immaginarlo? Il livello di attrito tra calza e suola? Il peso del piede che aumenta? L’acqua che scivola dal poncho sui polpacci, bagnando il pantalone termico, arrivando fino alle caviglie? Ecco, provate ad immaginare di accettarlo: è così e basta. Scegliete la playlist giusta e, appena raggiungete di nuovo i vostri amici, entrate a Pamplona a suon di “La isla bonita” di Madonna, avendo recuperato, grazie alla musica, tutta l’energia perduta durante gli ultimi faticosi ed umidi km.

Ecco, così è stato il nostro ingresso in città.

Doccia, pranzo, city tour. Il giorno prima avevo prenotato uno dei pochi disponibili per poter scoprire meglio la prima città “grande”. Adriana, la guida, ci ha fatto deambulare per 2 ore tra le viuzze del centro storico della città della feria di San Firmino, della corsa dei tori, raccontandoci per filo e per segno la sua storia dai tempi dei romani ad oggi. Peccato che la lingua prescelta fosse lo spagnolo. Mi sono lanciata in una traduzione simultanea di 2 ore, per la cui qualità mi sono scusata parecchie volte, che mi ha comunque sfiancata più della camminata mattutina. Il tour sarebbe proseguito per altri 30 minuti, ma gli 8gradi, il vento gelido e la presenza di saldali e ciabatte ai nostri piedi, ci ha portati ad abbandonarlo prima del previsto. Battendo i denti. 7/7, se volete venire a vedere la corsa dei tori. Sappiate però che, alla fine, muoiono.

Beviamo due te per riscaldarci mentre giochiamo a friendship killer, un gioco di carte inventato da un’amica di Marguerite. È dopo esser stata battuta che Jhonathan inizia la roulette delle domande scomode, che pone in un viso così predisposto all’ascolto e lontano dal giudizio, da farti venire voglia di rispondere contando fino a 10 per rispetto alla pacatezza riposta nel quesito.

“Pensate che i canadesi siano come gli americani?” Il dibattito nasce già su “americani”, in quanto l’America è molto grande e classificare “americans” solo gli statunitensi è già un punto di partenza strano. Dopo alcuni rimpalli riusciamo a sentenziare che il livello di istruzione canadese non ha nulla a che vedere con quello americano, è nettamente superiore. Dati interessanti che emergono sono che la benzina costa 2.5$ canadesi, circa 1.25€, mentre negli states 0.7€. Che ci sono 2 abitanti per km2, motivo per cui sono ancora molto utilizzate le auto, le distanze sono molto ampie e le lande abbastanza desolate, tranne ovviamente a Toronto o Vancouver.

“Sei cresciuta in un ambiente benestante?” Eccoci. Come rispondere no. Si. Sono cosciente delle mie fortune. Si. Ma “si” non è una risposta sufficientemente profonda. Argomento con uno speach così onesto da dover trattenere le lacrime.

Questo cammino è come l’Erasmus, non si può capire e non interessa a nessuno quale sia la situazione economica di ogni persona. Abbiamo tutti 3 vestiti, tutti abbastanza tecnici. Nessuno porta in giro oggetti di valore. Vogliamo tutti dormire in ostelli rumorosi e caotici. Mangiamo una volta al giorno. Abbiamo portato svariati chili di umiltà da casa. Camminiamo. Camminiamo. Camminiamo. A questa umanità ridotta all’osso, all’essenziale, non servono classi sociali, ma solo sguardi d’intesa e curiosità, condivisione e rispetto. È forse lungo questa linea per niente retta, che si trova la rettitudine? È forse qui che si è capito davvero che tutte le sovrastrutture non servono a niente? È forse nella fatica e nella gioia che siamo tutti uguali?

Non ho mai fino alle 23. Provo a mettere la sveglia alle 7, chissà chi mi disturberà domattina.

Ci aspettano 24km, la tratta più lunga mai fatta fin ora. Probabilità di pioggia? 100%.

Ah, un altro dato interessante: esistono dei calzini waterproof. Che funzionano. Peccato che non ne fossi a conoscenza prima, sarebbero stati la salvezza.

Buonanotte mondo buono.

P.s. Non l’ho mai scritto, ma l’ho pensato spesso. Quanto rumore fanno i pensieri nel silenzio? Ogni volta che infilo i tappi nelle orecchie e lentamente li sento adattarsi come acqua alle mie forme, i pensieri si fanno più forti e nitidi. Producono un suono più invadente del solito.

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Roncisvalle – Zubiri 21km

“È grazie a te!” Mi ha risvegliata una signora francese che, seguendo i miei consigli, è riuscita a far risorgere il telefono. È entrata in bagno, mentre mi stavo lavando il viso, saltellando di gioia. Aveva sbagliato così tante volte il pin che le veniva richiesto il puk, cosa che nessuno è mai in grado di recuperare. Le ho consigliato di togliere la sim e connettersi con il Wi-Fi per recuperarlo sul sito della compagnia telefonica. Ha funzionato. La sua gratitudine mi è sembrata smisurata e mi ha iniettato la prima carica di allegria della giornata.

Qualcuno verso le 6 ha deciso che era ora di accendere le luci e così la vita è iniziata. Il mio letto era il numero 126, ma ho preso abusivamente il 125. Il primo numero indica il piano: 1, gli altri il numero di letto. Su ogni piano, nell’Auberge di Roncisvalle, ci sono 100 letti, tranne l’ultimo, nel sottotetto, che ne ha la metà, non essendo letti a castello.

In un altro momento, la furbata sarebbe stata fregarmene del numero assegnato, andare direttamente al terzo, calcolando che probabilmente non ci sarebbero state così tante persone questa notte. Ma ho deciso di seguire il destino in tutte le sue mosse e prendere quello che mi regala.

Ho fatto bene.

Il mio vicino di letto era un ragazzo di Londra, Harry, occhi chiari e capelli rasati. Nonostante Tony, che dormiva sopra di lui, e Alex, che dormiva sopra di me, abbiamo parlato per un’oretta prima di obbligarci a dormire. Ha vissuto in Italia 3 mesi, a Firenze, collabora con la polizia di Londra – non si sa bene in che modo – ma questo lavoro gli assicura la possibilità di bilanciare bene vita e lavoro. Si stava quasi per sposare, con una ragazza italiana, ma è finita.

È qui per fare chiarezza. Futuro. Figli. Ansie. Gli piace parlare ed a me piace l’accento inglese. Ogni tanto la testa di Tony, che in realtà ancora non dormiva, spuntava dal letto e ride anche lui alle mie battute. Harry stava al gioco, potevo sciolinare jokes in inglese. Non so nemmeno come sia possibile che stia pensando in questa lingua.

“Facciamo colazione insieme domani” “Buonanotte”.

Ho infilato nelle orecchie degli strani tappi che sembravano fatti con la cera del galbanino, che mi ha regalato, mi sono infilata nel mio sacco lenzuolo e mi sono coperta con il pile. Non una coperta di pile, ma il mio pile. Ieri sera si stava bene, ma non benissimo, ho avuto una paura fottuta di avere freddo. Ed effettivamente verso le 3 di mattina, dopo essermi alzata per andare in bagno, ho infilato il pile sotto al lenzuolo. Mi sono svegliata solo 5 volte, è andata meglio di ieri, spero peggio di domani.

“Sei sempre circondata da persone interessanti, è la tua aurea, è un dono”. Me lo dice la persona più affascinante che ho conosciuto su questo cammino, Jonathan. “E le guardi negli occhi”. Si, è una cosa che adoro fare e che pochi sanno reggere, alcune popolazioni in particolare. “Puoi catturare la loro anima attraverso gli occhi” “Non voglio invaderle, ma se si lasciano guardare, si, voglio entrargli dentro”. Spiare, scorgere, scovare, leggere, sentire. Con lui c’è stata una connessione dal primo sguardo, una connessione pura ed unica. Che porterò sempre nel cuore.

Passo dopo passo, siamo io, lui ed Harry, che ha scelto di stare al mio passo nonostante il suo amico abbia proseguito più velocemente.

Jonathan è trasparente ed Harry è un chiacchierone, non esistono stigma o veli tra noi e ci raccontiamo piano piano la vita. Papà che sono venuti a mancare, rinascite, fallimenti, successi, problemi mentali, cure. Forse ha ragione Jonathan, si tratta di un’aurea. O forse è solo fortuna. Non lo so, ma è uno di quei momenti in cui non vorrei essere in nessun altro posto del mondo, se non qui ed ora. Qui ed ora.

Avete mai surfato? Dopo mille tentativi siete riusciti a mettervi in piedi sulla tavola e restate in equilibrio sull’onda, potete gestirla, è faticoso, vi sentite grati, il sorriso spunta naturalmente, magari urlate anche dalla gioia. Così, sulla cresta dell’onda, da quando sono partita, è come mi sento. Contenta per aver visto l’onda giusta arrivare, infinitamente grata alle mie gambe che riescono a reggere il peso del mio corpo, piena.

Al primo bar in cui ci siamo fermati una ragazza si è unita a noi. Purtroppo non ha trovato posto nel nostro stesso ostello, ma ci vedremo per cena. È più giovane di me, sveglia, parigina, lavora in VC e anche lei ha solo 10 giorni per arrivare dove arriverà. Ha fatto una prima tappa con un’amica, ma solo una, poi proseguirà da sola.

Poco prima che si aggregasse a noi ho scoperto che Harry ha 40 anni. Ne dimostra almeno 10 in meno. Suo papà è venuto a mancare quando lui aveva solo 24 anni, da quel momento la longevità è diventata quasi un’ossessione per lui ed ha studiato. Tanto. Arrivando a convincersi, grazie ad una ricerca americana, che le saune, insieme ad un corretto stile di vita, hanno un effetto incredibilmente benefico sulla salute, sulla prevenzione del cancro e di conseguenza sulla longevità.

Non vi dico quante saune ha fatto fin ora, ma credo che inizierò ad andare in sauna anche io al mio ritorno. Almeno 1 volta a settimana direi, magari anche con un massaggino, ai piedi.

Questa tappa non è nulla in confronto a quella di ieri, i pezzi in salita si contano sulle dita di una mano e la cosa più impegnativa è l’ultima discesa. Potrei continuare ancora un po’ di km, ma non ha senso: domani voglio arrivare a Pamplona e fermarmi li, Zubiri è a metà strada, meglio conservare le energie.

L’ultima discesa, appunto, è stata la più ripida e lunga, il terreno era instabile e per un secondo, solo per un secondo, ho perso il controllo del mio piede sinistro.

Il vero problema oggi, sopportabile, ma fastidioso, è stato, in alcuni momenti, il freddo. Camminando non si sente minimamente, ma una volta fermi tirava una bella brezza gelida di montagna.

Lo zaino di Harry è così grande che non sarà un problema rubare qualcosa.

Per questa tappa ci siamo fidati di Jonatan, del resto ne ha già fatti 4 di cammini, abbiamo prenotato un ostello che rispetto ai precedenti è una reggia. 15€, ma ho la coperta, il materasso è un vero materasso e la doccia è una vera doccia.

Potrei cedere a prenotare anche l’ostello di domani, su suo consiglio, ormai è la mia stella polare.

Il suo ritmo non è veloce, spesso rimane indietro e ci vediamo all’arrivo, è un ragazzo corpulento ed ha bisogno dei suoi tempi, ma ci raggiunge sempre.

Il cammino è così: inizi, se sei fortunato conosci subito un po’ di persone, fai amicizia, scegli a colpo d’occhio chi ti emoziona di più, ma ognuno prosegue con il suo ritmo. Capita spesso che ci si ritrovi a km di distanza, con persone che hai conosciuto il primo giorno, ma ogni passo che fai, se vuoi, è una nuova conoscenza. Così, le persone continuano ad intrecciarsi, avanti ed indietro si superano e si recuperano, si fermano in un paese e poi in un altro, si ritrovano e si perdono, per sempre.

Se vuoi restare in contatto con qualcuno, devi avere il coraggio di chiedergli il numero, presto, perché potresti non ritrovarlo più. Oppure puoi credere nel destino, nel fatto che quegli intrecci diventino fili invisibili e che vi ritroverete. O ancora, puoi accettare che il loro passaggio ti abbia lasciato qualcosa, sperare di aver lasciato qualcosa a loro e proseguire, con il tuo zaino sempre più leggero ed il tuo cuore sempre più pieno.

A metà strada tra Roncisvalle e Zubiri, penso seriamente che vorrei arrivare fino alla fine, per avere la possibilità di condividere più tempo con queste persone. A Zubiri invece, dopo la fatidica discesa, mi rendo conto che sono disposta a vedere meno posti, a percorrere meno km, pur di condividerli con le persone giuste.

Sotto la doccia, calda, di questo ostello troppo bello per essere un ostello, sono pienamente grata alla vita. Anche oggi.

Stasera cuciniamo. Verdure. Ne abbiamo bisogno tutti. Potremmo mangiare anche aria, sono troppo contenta.

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Orisson – Roncisvalle 17 km, 500 metri di dislivello a salire e 500 a scendere

Tutta la gentilezza del mondo è concentrata qui. Una riserva infinita che continua ad alimentarsi, giorno dopo giorno. È una polvere magica, le persone arrivano, si riempiono le tasche, tornano a casa e la distribuiscono.

Qualcuna torna direttamente qui, a produrne di nuova ed il circolo non finisce mai.

Partenza ore 8:00 in punto punto punto la nottata è stata nuovamente tragica, penso di essermi svegliata almeno 20 volte, per poi rigirarmi su me stessa e Tornare a dormire. Alle quattro speravo che fossero già alle sette per alzarmi. Il sole ha trafitto le finestre della sala da pranzo mentre stavo per bere il primo sorso di te. Le pareti si sono tinte di arancione e così anche i visi delle persone sedute a sud-est. Dopo i primi passi mi rendo conto di avere veramente male all’anca destra. Non è un dolore insopportabile, ma è costante ad ogni passo. Può essere che il fatto che ieri avessi male al ginocchio destro, nell’ultima salita, abbia inciso sulla mia camminata al punto da gravare sull’anca. La parte più dura stamani e questo primo pezzo che stiamo già facendo, dopo questo ennesimo dislivello di circa altri 1000 m, ci sarà un’area pianeggiante e successivamente la discesa. Successivamente significa tra 10 km, cazzo.

Sono partita con Jhon, che sfoggiato fin da subito due racchette che ti invidio molto. Ho potuto portarlo in aereo data la loro natura di strumento contundente, ma avrei potuto comprarle a Saint Jean, alla partenza. Ho voluto provare senza, maledetta me.

In compenso, per ora, le scarpe sono ancora delle ciabatte. John mi ha già superata e corre a 200 m di distanza da me. Per potermi godere il panorama, invece di navigare nel silenzio dei miei pensieri, li racconto Ad alta voce al telefono, così che lui scriva. Siamo io, il suono dei due te la mia voce affaticata, la brina che evapora e gli uccellini. Quale miglior compagnia?

Ho trovato una lumaca. O forse una chiocciola? Bavosa e lunga 10cm, ma con il guscio a chiocciola sopra di lei. Era in mezzo ala strada asfaltata. Per timore che venisse schiacciata l’ho presa è spostata verso l’erba. Non appena ho toccato il suo guscio si è ritratta nella sua dimora, per proteggersi da questa invasione. Cosa fareste se qualcuno muovesse la vostra casa? Con il terremoto andiamo anche noi umani sotto al tavolo. In quell’istante, in un flash, sono tornata in terza elementare, nella scuola pubblica di Varese in cima alla salita, dopo il ristornate cinese. No, non mi ricordo come si chiamasse.

L’istituto era circondato da boschi, nei quali flora e fauna vivevano in armonia finché i marmocchi non decidevano con la loro irruenza genuina, di rompere l’incantesimo. C’erano tante lumache/chiocciole e gli studenti si dividevano in difensori della specie ed assassini. Ricordo con curioso orrore la pratica di infilare un rametto di legno dentro il guscio per recuperare il corpo ritratto dell’animale. Ovviamente quel gesto l’avrebbe perforato ed ucciso, ma i bambini del team assassini, sembravano non rendersene conto. Lo sterminio delle lumache era pratica così consueta che, nel sognare di scappare di casa – si, facevo sogni d’indipendenza da bambina – avevo immaginato di costruire, proprio nel bosco della scuola, una casa fatta di paletti di plastica del caffè, con una lumaca sul tetto. Ho ritrovato il disegno in un vecchio diario. Che piccolo ingegnere malefico.

Rido da sola, con l’affanno per questa salitina, pensando che il dolore all’anca sta forse diminuendo e che i bastoncini del caffè erano lo strumento prescelto in quanto materia prima che si trovava in abbondanza presso scuola di papà. Tutti con il loro involucro di carta, posizionati qua e là in bicchierini di plastica. Farne scorpacciata, nei miei sogni grandiosi, era un gioco da ragazzi. La mia compagna Sabrina era mia complice, ma quando le proponevo di venire a vivere con me, non era troppo convinta ed in cuor mio sapevo, già allora, che, per certe avventure c’è posto solo per 1.

L’opera non ha mai visto la luce in quanto, poco tempo dopo, i miei genitori hanno deciso di ristrutturare una casa vera, in un paese che prendeva il nome dal cognome della mia compagna Sabrina: Casale.

Come si intreccia a volte il destino.

Sto lottando così tanto con l’anca destra che ho deciso di mettere la ginocchiera sul ginocchio corrispondente, almeno in questo modo la forza impressa sul ginocchio sarà ben calibrata è qualcosa farà. La salita non sembra terminare veramente fatica, non per il fiato corto ma per questo dolore. Rallento e mi fermo qualche minuto quando vedo finalmente la croce, per la croce in cielo sterrato, ma segna anche la metà del cammino di oggi.

Dopo qualche chilometro, finalmente entriamo nel bosco posso iniziare la caccia al mio bastone. Ne trovo uno anche con l’impugnatura naturale, ma mi sembra di camminare un po’ storta, continua la caccia finché non trovo anche il secondo salvifico bastoncino. Ora posso continuare il mio percorso gravando molto meno sull’anca, con maggiore agilità e sicurezza.

Ecco, se c’è un consiglio che avrei dovuto ascoltare senza indugi è quello di i bastoncini dall’inizio.

Il ritmo è comunque lento perché dopo un’ultima estenuante salita, condivisa con i fratelli inglesi, inizia la discesa. Un infinito squat che mi fa bruciare le chiappe.

Da quando inizia la discesa mancano 4 km, che dovrebbero essere percorsi in un’oretta.

Lungo l’ultima salita una signora, accompagnata dal marito, barbuto con il cappellino del camino, stava mollando. Li ho incrociati mentre lui le diceva “you can do it”. Per motivare lei, ma, forse, più per motivare me stessa, ho gridato “of course you can do it!” Da quel momento non ho più tolto lo zaino dalle spalle fino alla fine.

Lungo ultimo tratto di strada, che ho percorso in totale solitudine, con il vento nelle orecchie e qualche rumore indecifrabile, le piante, i loro tronchi, erano pieni di muschio. Uno aveva addirittura delle squame, mi è tornato in mente mio nonno… Il papà di mio papà, non usava mai le mappe, era certamente un uomo di un’altra epoca. Gli strumenti che preferiva erano il sole, i girasoli, il muschio sulle piante. Ho qualche dubbio circa la direzione da prendere, scendere dalla macchina e controllava le piante. Abbastanza ridicola se la si immagina oggi, ma non così tanto quando eravamo ancora piccoli e debuttava il tomtom, strumento del diavolo che abbiamo subito regalato alla nonna, l’unica che l’abbia utilizzato.

Nell’ultimo, si spera, tratto di strada, incrocio una famiglia italiana. O meglio, quella che penso sia una famiglia: tre generazioni di maschi italiani: nonno, papà, figlio. Li porterò nel cuore, perché il figlio mi ha fatto capire che mancavano solo poche centinaia di metri all’arrivo. Sono i secondi italiani che vedo.

Scoprirò solo qualche manciata di minuti più tardi che in realtà sono 3 persone semplicemente di eta diverse che si sono conosciute camminando. Luciano, il più anziano, Bruno e non so ancora il nome del più giovane.

Non sono mai stata più felice di sentire il rumore di una moto. Mancano 500 m, da qualche chilometro ha iniziato a farsi sentire anche il ginocchio sinistro, la mia pianta del piede sta chiedendo pietà, l’unica cosa che non molla nel mio corpo e il sorriso. Grazie al cielo davanti a me vedo l’ostello. Si cazzo. Anche queste tappe ce la siamo portata a casa, le ginocchia non lo so.

In coda per entrare in questo Albergue stupendo e gigante, conosco Bruno e Luciano, mentre chiacchiero con mezza fila usando tutte le lingue del mio repertorio. Da ieri sera sono diventata l’interprete e saltello da una parte all’altra cambiando voce e vocabolario a piacere. Non sono mai stata così contenta di aver imparato tutte queste lingue. Poter capire, comprendere, ascoltare e parlare con tutti, ma non solo, aiutare le persone a comunicare tra loro, è un tesoro inestimabile. E pensare che in quinta liceo se c’erano due indirizzi che avevo escluso dalle scelte universitarie erano medicina, perché serve una vocazione, e lingue, perché pensavo di non esser portata. Quanti assi abbiamo nella manica, se ci scaviamo davvero bene?

Ho appena scelto di spendere 4€ per la lavatrice, invece che lavare a mano i vestiti con il rischio che non asciughino entro sera. Grande investimento, peccato che sia rimasta con una t shirt, mutande e pantaloncino, non ho neanche un reggiseno per gestire la situazione. Mi sdraio per la prossima mezz’ora, con i piedi all’insù, per riattivare la circolazione. Poi andrò a riempirli di vasellina ed infine a visitare il paesello, nella speranza di trovare una messa per celebrare la Pasqua come si deve.

Forse devo ripararmi da questo vento di aprile, altrimenti mi prendo un raffreddore che già sento la nonna.

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Bordeaux – Saint Jean Pied de Port 235 km in treno e bus

9.20, Gare Saint Jean.

Il mio treno ha 2 destinazioni. Alcuni vagoni, ad un certo punto, si staccheranno e prenderanno due strade diverse. M’immagino la scena come il distacco di una navicella spaziale dalla nave madre. Probabilmente invece avverrà, giustamente, da fermi.

Il primo treno è in direzione Bayonne, la fermata precedente è Dax (rido), quella successiva Biarritz. A giudicare dai maglioncini con camicia alla Ubaldo, Biarritz è la meta dei miei vicini di sedile, che si esprimono a gesti e non sembrano voler cedere alla loquacità. La prima classe costava 2€ in più della seconda, mi sono lasciata tentare. Vi dico solo che c’è la moquette.

Passo e chiudo per ora, devo concentrarmi sul finestrino.

Ogni tanto guardo telefono. Una volta si è anche alzato. Il mio compagno di viaggio silenzioso, seduto di fronte a me, per fortuna in senso opposto rispetto alla direzione di marcia, è un uomo sulla 40ina, stempiato, con i capelli sale e pepe. Porta un maglioncino grigio con scollo a V, sopra ad una camicia bianco candida che sembra anche stirata. Ha le unghie curate, che mostrano quel millimetro di Bianco, accentuato sugli angoli, che riesce ad infastidirmi. Mani grandi e dita lunghe, non troppo affusolate. Solo con l’indice digita qualcosa sul telefono. Probabilmente sono gli anni 90 in questo caso lo spartiacque: chi è nato prima usa il telefono con l’indice, chi è nato dopo ha i pollici opponibili che consumano lo schermo.

Ogni tanto guarda fuori dal finestrino. Il paesaggio che si staglia alla mia destra ed alla sua sinistra è in continua evoluzione. Siamo partiti con il cielo blu di Bordeaux, passando per boschi nebbiosi, per campi gialli luminosi, per praterie brucate dalle pecore. Ogni tanto una stalla, un paesino, la campagna, la città. Dax.

Avrebbe tutta la faccia di un papà che raggiunge la famiglia, partita prima di lui, per il weekend di Pasqua, ma le sue dita già descritte, non svelano segni di matrimonio. Potrebbe essere già finito, mai iniziato, potrebbe essere un single da sempre in direzione casa di mamma.

Il suo Samsung ha la cover dei boomer, la cover che copre anche lo schermo. Era nera, ora è un nero sbiadito e sgualcito. Rido pensando che è davvero la cover dei boomer, sembra che non gli sia mai andato a genio il fatto che i telefoni non si aprono più come i primi Motorola, conservano quel gesto gelosamente, probabilmente inconsciamente. Lo ruota e sembra intento a guardare un video, senza audio. Di gratta la cute con la mano sinistra sulla quale noto un piccolo graffio. Single e con un gatto?

All’altezza di Dax incrocia le braccia, cede ai miei sguardi furtivi, ma costanti. Gli occhi, sempre bassi, sono di una nuance di marrone abbastanza scura, con venature miele, come le sue scarpe in pelle. Per sbaglio li incrocia con i miei, distogliendoli immediatamente. Chissà cosa pensa lui di me. Chissà se pensa qualcosa o è totalmente assorto nel suo mondo.

In stazione attendono il treno una famiglia con due bambini dagli impermeabili colorati, lei di rosa e lui di giallo. Il piccolo saltella imperturbabile, la piccola si lascia portare in braccio da mamma. C’è un terzo fratello, molto più grande, con una felpa viola ed un cappellino grigio, tiene per mano il bambino con l’impermeabile, gli mostra i segreti dei binari. Che sia quella la sua famiglia? Chi l’ha detto che deve indossare la fede una persona per avere una famiglia?

Mi alzo per bere ed un altro pensiero giunge alla mia mente. Ma se fossi nata in Francia, quale sarebbe la mia vita ora? Una vita italiana traslata in un altro paese? Vivrei a Parigi, andrei in montagna a Chamonix ed al mare a Biarritz? O in Costa Azzurra? Solo in un secondo valuto l’opzione che sarei potuta nascere a Nantes, o in un paesino della Bretagna, nascerci, crescerci, diventare fotografa di battesimi e stazioni. Qualcosa di totalmente diverso. Mi piace immaginare che sarei trovata comunque a 26 anni, su un treno in direzione Bayonne, con un uomo di fronte a cui guardare le mani, intenta ad assaporare ogni secondo di questa vita. Ecco, magari senza smalto color glicine. Ma cosa mi è saltato in testa.

11.36, Treno Bayonne-Cambo

Ora si che si respira cammino. Le porte de masque il est obligatoire sur le bus et le train, ma ciò nonostante questo trenino profuma si cammino. Profuma perché gli umani che l’hanno popolato ancora non hanno iniziato a camminare.

Chiunque mi sembra meglio equipaggiato di me. Dopo tutti i calcoli quantistici parto con l’idea di aver toppato su due pezzi fondamentali, scarpe impermeabili e giacca, ma sono fiduciosa, del resto se la cosa peggiore che può succedere è bagnarsi, c’è poco di cui preoccuparsi.

12.02 bus Cambo – Saint Jean Pied De Port

Fa fresco. Ma soprattutto ancora nessuno mi ha rivolto la parola e ancora non ho rivolto la parola a nessuno. Il bus è gremito, ma non così tanto da costringere qualcuno a sedersi vicino a me. Saliamo. Controllo l’altitudine con la bussola dell’iPhone. Attraversiamo una zona particolarmente boschiva, le piante sono verdissime e le vegetazione folta. Oltre il vetro riesco ad immaginare l’odore di erba bagnata. Pessimo segno. Il cielo è semi coperto, marcia spazio a qualche chiazza azzurra, per poi diventate ombroso verso ovest. Le strade sono abbastanza trafficate. Luigi mi ha detto che ieri sono arrivate 700 persone a Santiago. Questo può solo significare che ci sono migliaia di persone in movimento. Sono un puntino viola con un pile tra quelle migliaia, nel caso mi cerchiate, per ora solitario.

Approfitto di questi tratti sui mezzi per lasciar volare le dita sulla tastiera, non so se avrò ancora voglia o bisogno di scrivere mentre camminerò, non so se ne avrò il tempo e sicuramente non voglio sentirne il dovere.

Farò come dice Truppi, il De Andrè del XXIº, per una volta ascolterò e gestirò i miei istinti più animali, i miei bisogni più personali, nel modo più naturale possibile. Fame, sete, sonno, fatica, voglia di scrivere o di piangere. La voglia di baguette no, fino a domani.

Le case che vedo dal finestrino hanno il tetto in mattoni, facciate bianche candide e finestrelle con persiane rosse. Tutte, tranne qualcuna che si sbilancia con il verde scuro. Ognuna ha il proprio giardino, curato, una o più macchine nel cortiletto ed il bene della famiglia, in ferro modellato, appeso accanto alla porta.

Non faccio in tempo a notarlo che siamo arrivati ad una fermata intermedia dalla quale scendono alcune ragazze, che i genitori sono venuti a prendere. Ora il sole batte più forte, le nuvole di sono leggermente diradate ed il papà selle ragazze è in maniche corte. Nonostante la sua corporatura imponente, mi dà fiducia.

E facevo bene ad avere fiducia.

Sono le 13, splende un sole che non spacca le pietre, ma sicuramente spacca la mia testa. Tra tutti i ristorantini turistici di Saint Jean scelgo quello senza alcuna fotografia ed in cui capeggia nel menu il minestrone. A gestirlo c’è Patrizia, insieme al compagno e due ragazze. Lei sta in cucina, ma casualmente mi accoglie e scopro il lei le mie radici. Piemontese d’origine, ha fatto il cammino 5 anni fa è dura ancora adesso. Dopo averlo completato ha rilevato l’hotel La vita è bella e li ha lavorato o – come piace dire a lei – si è goduta il tempo, fino ad oggi. 3 giorni fa, dopo aver dato in affitto l’hotel, hanno preso in gestione questo ristornare. Una scommessa, la definisce lei. Il locale è vuoto, all’ora di pranzo, ma viene da giorni di grandi pienoni grazie alla festa del prosciutto di Bayonne. Spero di aver capito bene, prosciutto.

Le chiedo se torna a casa ogni tanto, mi confessa che ha voglia di tornarci i. Pianta stabile, per un po’, “ho voglia di tornare dove tutto è iniziato, perché va bene fare le cose per se stessi però c’è tutta la mia famiglia la”. “Anche stare accanto alla propria famiglia può significare fare qualcosa per se stessi”, ribatto. La ringrazio, mi tolgo un altro strato di vestiti ed è lei la prima a dirmi “Buen camino”. Grazie Patrizia.

Timbro. Mappa. Foto. Si parte.

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Refuge Auberge Orisson, 7km dopo la partenza, 1000m di dislivello

Sono le 21.00 e sono già tutti ritirati nelle loro camere, tranne una coppia di veterani (mi piace chiamare così chi ha già fatto il cammino più volte), che è andata a fare due passi. Il sole è tramontato dietro all’ostello, il cielo è ancora chiaro e dietro alle montagne, in lontananza, si alza, solo per me, per farmi vibrare di gratitudine e battezzare questa prima notte di cammino, la luna. Piena, come me.

Sono sola, un brivido di freddo mi entra tra il pile e la maglia di cotone, gli uccellini non smettono di cinguettare, anche i gestori dell’aauberge sono andati a casa e questa luna continua a diventare sempre più grande.

Siamo una 30ina a questo primo pit stop, ci siamo presentati, abbiamo condiviso la zuppa, la carne con i piselli, acqua, torta e poi abbiamo fatto un giro di tavolo. Ognuno ha detto il proprio nome, da dove viene e perché sta facendo questo cammino. Non sembrava per nulla una seduta degli alcolisti anonimi, era piuttosto un incontro d’anime.

Il più veterano è qui per la 6ª volta, è Jhonny, un irlandese seduto accanto a me, pacato ed ironico come la maggior parte degli irlandesi. Dietro di lui c’è Jonatan, 3ª volta, viene dal Canada, è proprietario di un’azienda manifatturiera, ma ha ceduto il management e fa solo quello che gli piace. Soffre di depressione e quando si sente in down ha scoperto che il cammino è la sua cura. Di fronte a noi una coppia che ha festeggiato la scorsa settimana 25 anni di matrimonio. 55 anni entrambi, lui appena andato in pensione. Viaggeranno per 2 mesi. Lei è colombiana, lui ha origini spagnole e messicane, ma è americano. Camminano per festeggiare.

Sempre nel nostro tavolo ci sono una figlia con il suo papà, sono di Logrono, una città proprio sul cammino. Il papà ha conosciuto la mamma durante il suo primo cammino e la riporta sulle orme della fede. Per lui è una questione di fede, per lei di conoscenza personale. Battibeccano un pochino sulla cosa, ma amorevolmente.

È ancora 2 fratelli, inglesi, uno è la prima volta che si separa dalla moglie da 20 anni a questa parte, scherza dicendo che lei è già molto contenta di questo esperimento. Nell’altro tavolo c’è un clan di 6 amiche, qui per passare del tempo insieme. Un ragazzo con cui ho camminato parecchio, lituano, ma che vive in Spagna, dopo esser passato dalla Norvegia. 2 proposte di matrimonio non culminate in un matrimonio alle spalle. Una vita in cucina. Ha lasciato il lavoro, è stato lasciato dalle compagne e vuole rimettere in ordine un po’ di cose lungo questi 42 giorni. È alto, molto alto, motivo per cui abbiamo fatto solo un paio di km assieme, mi ha seminata.

Questi primi km sono stati tosti. Ho saltellato come una scimmia per un po’, finché non sono iniziate le salite. Ho tenuto duro finché non ho rallentato spudoratamente, fino a fermarmi.

Ho chiamato la nonna. Dovevo farlo da giorni e mi sembra proprio il momento giusto. Se per la prima ora, guardandosi attorno, sembra di essere nel Monferrato e canticchiavo “Dolci colline”, quando mi sono fermata, 2km prima dell’ostello, ero già in montagna. Sotto i miei piedi una vallata ripidissima, in lontananza l’eco di un fiume, sopra di me, neanche a dirlo, un’altra salita.

“Buona passeggiata”, “nonna si dice Buen camino” “Buen camino” “ti voglio bene” “anche io e mi raccomando ricorda di non sforzarti troppo, che quando le cose vanno bene bisogna lasciarle stare”. Accontentarsi. Voce del verbo accontentarsi. Diamine, come faceva a saperlo? Sarà mica stato…

Sono cresciuta con la fede, che mi è stata trasmessa con amore, timore e stupore.

Con amore proprio da Nonna, che era così dolce con me in ogni momento, compreso quello delle preghiere. Quelle della buonanotte erano un rito cosi affascinante, così puntuale, regolare, da farmi addormentare serena.

L’angelo custode era una preghiera di messa in guardia. Non solo mi custodiva, ma era il mio vero e proprio sorvegliante. Mamma segnalava ogni marachella alla nonna, la quale tornava da me al suono di “l’angioletto mi ha detto che…”. Quello era lo stupore. Non potete immaginare quanto ci credessi.

Adesso che mamma scopre le mie pazzie ancora dopo la nonna, capita ancora che, anche solo per l’inflazione della mia voce, nonna mi legga dentro.

La frase di oggi è stata così puntuale, così provvidenziale, una carezza, da farmi rimettere in dubbio l’angioletto. Non sarà che ogni tanto fa ancora qualche servizietto per lei? Del resto le mance nascoste nel palmo della mano, si sa, piacciono a tutti. Come dire di no ad una nonna.

Carica post chiamata con nonna, mi sono rimessa in marcia. Le pendenze erano infinite. In qualsiasi posizione mettessi i piedi mi davano fastidio le ginocchia. Mi sono fermata a bere, a guardare il panorama, ho camminato all’indietro, ho cantato, ho zigzagato, ho messo i piedi a papera. Finché non ho visto la terrazza dell’Orisson spuntare dopo la curva. Mi sono lasciata sfuggire un “si cazzo”.

Tutto il resto è doccia, brandine, sacchi a pelo e persone con cui vorrei già passare più di una nottata.

Alla fine cos’è il bello della vita? Passarsi i piatti, guardarsi negli occhi, ridere, sfiorarsi le anime. Connettersi, con le persone, la natura, se stessi.

Mi connetto con i miei sogni. Domani la sveglia suona alle 7.00.

Sono le 10 sembra mezzanotte.

Che figata la fatica.

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Il clan dell’alba – 4,6 km insieme al sole di Bordeaux

Gli uccellini ginguettano, una signora apre le persiane cigolanti con un colpo deciso, attorno ai tavolini dei bar si accomodano le sedie, un signore sospira affannosamente portando nel locale una cassa di frutta. Battito d’ali di piccione. Voci flebili e lontane. Profumo di burro. I miei passi.

Il sole investe un palazzo in prima fila sul lungo fiume e di rimando, il suo riflesso, arriva fino ai miei occhi. Le strade sono tutte bagnate, non perché abbia piovutoX ma perché di notte sono state lavate. Con il sole in fronte ed il semaforo rosso, attraverso la strada. Ho fatto proprio bene a venire verso il fiume.

Qui la vita ha un altro ritmo, I cani portano già in giro i padroni, alcuni ragazzi ballano in canottiera, considerando quanto si appiccichino le suole delle scarpe nel tratto di strada a loro limitrofo, oso pensare che siano lì da ieri sera. Alla loro destra una ragazza, magari un’amica, che fa la pipì tra i cespugli, alla loro sinistra la sponda del Garonne che è veramente ampia, almeno 500 metri ci separano da quella antistante.

Mi fermo e mi lascio cullare fissando la corrente. Attorno ad entrambe le sponde è pieno di arbusti, che si riflettono nell’acqua rendendola estremamente verde. Un tram suona la campana. I netturbini buttano la spazzatura. Un uomo sulla sessantina corre con le chiavi in tasca e questo suono, per un secondo, mi fa pensare a Luigi Bazzi. È difficile che suoni, che non siano canzoni, vengano associati ad una precisa persona, ma con quelle chiavi Gigio ha dato ritmo agli anni del liceo, il link è più forte di me.

Un ragazzo in bicicletta porta a spasso un dalmata, mentre qualcuno si sta arrampicando su uno degli arbusti precedentemente citati, rischiando di cadere in acqua. Sono incuriosita e mi sporgo, sono due persone in realtà è la prima cosa che li vedo fare è sputare verso il fiume: ne deduco che non sia uno spettacolo interessante, mentre un crampetto alla pancia mi sta indicando la strada verso la patisserie. Entro da sola dalla porta Cahilau, la calma è così soffice che anche le auto sembrano spostarsi a ritmo lento, poco invadente.

Che bello svegliarsi riposati prima della sveglia.

Una signora tira l’acqua dalla finestra, la vedo, la guardo, si sente volte in flagrante, ma è abbastanza noncurante. Un’altra fuma lasciando ciondolare la mano fuori dalla finestra, quanto può essere affascinante l’umanità? Mi chiedo per tutto il tragitto che mi separa dal burro che incontra la farina.

Ho dormito sommariamente male. Mi sono svegliata svariate volte, probabilmente per irrequietezza più che per il rumore. I tappi per le orecchie svolgono egregiamente il loro lavoro, ma non sono stati sufficienti a zittire l’emozione.

Sono contenta così, questa passeggiata mi ha permesso di classificare gli umani che si sveglino presto in alcione categorie:

⁃ i pelandroni: quelli che si si svegliano presto, ma non mettono i piedi fuori casa

⁃ I lavoratori: gli tocca, devono per forza svuotare quintalate di cibo dai camion per permettere ai comuni mortali di fare la spesa all’apertura. Devono raccogliere la nettezza per non farlo di giorno. Smontano la pila di sedie fatta la sera prima, che sanno già verrà nuovamente umiliata da lì a qualche ora, ma non si può rischiare che vengano rubate le sedie di un bar. Può essere che abbiano imparato ad amare questo susseguirsi di albe, oppure semplicemente vorrebbero godersi il tramonto una volta tanto.

⁃ Gli sportivi: corrono, corrono e ancora corrono. Per loro la giornata non inizia se non c’è stata prima la corsetta. Sono schiavi delle endorfine e sembrano saltellare leggeri in questa schiavitù.

⁃ Uomini e donne della strada: che dire, loro non l’abbandonano mai. Supportano con dedizione i netturbini nel loro lavoro di pulizia ed al contempo fanno girare le palle a chi le strade le deve pulire. Un controsenso molto umano. In Francia non è bello chiamarli clochard, anche se in Italia sembra molto elegante, qui equivale a “barbone”. Sono persone il cui tetto è il cielo, mi piace pensare.

⁃ Gli irriducibili: proprio loro, i miei preferiti, quelli che a casa non sono mai tornati, non vorrebbero che quella notte finisse mai, finché la sbornia non smette di fare effetto e si guardano l’un l’altro con fare dubbioso. “Ma che cazzo ci facciamo ancora qui?”. Sottogruppo degli irriducibili sono coloro che a casa ci sono tornati, ma non era casa loro. Camminano con lo sguardo basso in abiti da sera, si interrogano sulla notte appena vissuta. Del resto, se ci fossero punti di domanda, sarebbero ancora in quel letto ad aspettare la colazione.

⁃ I viaggiatori: occhi sciupati e bagagli sempre troppo pesanti. La loro missione mattutina è quella di attutire in tutti i modi il suono che le rotelle fanno incontrando il suolo, qualsiasi esso sia. Inutile dire che falliscono miseramente. Temono, con questo rumore indomabile, di avere il potere di svegliare un’intera città. La solidarietà è massima. Può essere che un sottogruppo di questa categoria siano i viaggiatori come me, quelli senza trolley che semplicemente sono assetati di vita e vogliono vedere la città in tutte le sue nuance, dall’alba al tramonto.

Mi siedo ai piedi dell’hotel de ville, nella piazza che tanto mi ricorda Siviglia, ed addento finalmente il tanto agognato croissant. Si avvicina un uccellino con il quale decido di condividerlo. So già che lo digerirò stasera. Maledetta gola.

Il sole ha ormai illuminato interamente la torre, è ora di mettersi in marcia, 2 treni ed 1 bus mi dividono dalla partenza. Certo che almeno un 100 grammi avrei potuto portarlo.

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Milano – Bordeaux 733 km di volo verso il Camino

Rotelle di trolley

Macchine piene anche sui sedili posteriori

“Hai preso la colomba?”

In città solo lingue straniere

Qualche superstite che partirà domani si concede un aperitivo in piazza

Cosce all’aria

Dita dei piedi

È il battesimo delle vacanze

Un prequel dell’estate

Che è già nell’aria

Una città per occasionali

Attenzione a dove lasciate la macchina

Parto anche io

La meta non è Santiago

È qualche luogo dentro di me

Nemmeno troppo remoto

In cui aleggia un tesoretto di serenità

Di cui voglio conoscere la strada

Da cui voglio attingere all’occorrenza

A piccole dosi

Fino all’overdose


Sarei voluta partire due anni fa.

Se ripenso a me stessa due anni fa, che immatura. Eppure, se mi guardo indietro, sono svariati i momenti in cui, facendo i conti con me stessa, mi sono detta “che immatura che ero”. Ma sono altrettanti i periodi in cui mi sono arrogantemente sentita grande. A 12 anni, in prima media, con la pancia di fuori ed i pantaloni a vita bassa, già mi sentivo una piccola grande donna. Rido ripensandomi con la frangetta bionda ed i denti appena cresciuti. Arrogante. Sbruffona.

Che esperienza sarebbe stata due anni fa? Un viaggio con una Doralice diversa.

Meno consapevole, più giovane. Ecco, forse l’età, nel viaggio introspettivo verso se stessi, porta tanta consapevolezza. E la consapevolezza, nel mio caso, ha attutito l’arroganza ed acuito l’amore per il tempo personale, la voglia di scoprirsi.

Partirò da Saint Jean Pied De Port, l’inizio del cammino francese. Ho solo 11 giorni, di cui il primo e l’ultimo di viaggio. Non arriverò a Santiago. Questo dettaglio del viaggio ha lasciato attonito ogni persona, alla quale ho accennato i miei programmi. “Perché non fai gli ultimi 200 invece?” Mi chiedevano. “Perché voglio sfidarmi a non avere una meta, ad ascoltarmi, a limitarmi. Sono solita vivere per obiettivi, vorrei pensare a vivere e basta.” Rispondevo. Ma è solo adesso, mentre rimugino su quanto possano essere pesanti 6kg, che mi rendo conto che non è tutta la verità.

Se fossi partita 2 anni fa sarebbe stato semplicemente un viaggio diverso. Parto oggi e sono questa persona. Una persona che spera di vivere abbastanza a lungo da sentire nuovamente il bisogno di camminare. Anche se la Ginzburg, intervistata dalla Fallaci, esortava il mondo a prendersi tutto “non si dovrebbe mai mettere da parte soldi, sentimenti, pensieri: perché dopo non si usano più”, non arrivo a Santiago. Metto da parte questo pugno di km perché potrei averne ancora bisogno. Con parsimonia. Nella speranza di accontentarmi di quelli che riuscirò a fare.

Accontentarmi, ovvero essere contenta di quello che c’è, di quello che ho, che è semplicemente tutto.

È con quei famigerati 6kg, che vi dico già con certezza: sono troppi, e con una corposa dose di dolci aspettative, che lascio Milano. Torrida. In una giornata emblematica per il surriscaldamento globale. La lascio con i suoi 28º, con la mailbox vuota come il frigo, con la casa pulita come non mai, le chiavi consegnate al portinaio per accogliere Georg quando io non ci sarò, lo scooter legato al palo, un po’ di pezze ed un sorriso a 32 denti.

La macchina la porto via, che fidarsi è bene, ma non ripetere gli stessi errori già commessi in passato, è meglio.

Chiedo a papà se posso lasciarla da lui e, come sempre, acconsente. Con la scusa che Varese è vicino a Malpensa, papà è sempre presente ad ogni mia partenza importante. Quelle partenze che prevedono che l’auto non rimanga sola, insomma i Viaggi con la V maiuscola.

Mi piace pensare che, nella sua apparente cinicità, questo rito banale, sia il suo modo di portarmi ancora in braccio, di sentirsi ancora necessario per la sua bimba che ha sempre voluto rendere indipendente e si vergogna a lusingare.

Mi lascio cullare sul sedile del passeggero, rendendomi conto di aver dimenticato la cosa più banale dell’elenco: il caricabatterie. Lo prendo come un segno positivo, sono già predisposta a dimenticare il telefono in fondo allo zaino.

6kg ed un telefono.

Inversione ad U.

Buon viaggio.

22.39, bus aeroporto- ostello

Cosa si fa in volo verso il cammino? Se mi avessero detto che avrei guardato il documentario di Laura Pausini non ci avrei creduto, invece eccomi, a riscaldare il mio francese con Primavera in anticipo nelle orecchie.

Qual è lo spartiacque della vostra vita?

Quel momento, quella scelta, dopo la quale nulla è stato più lo stesso? Quella botta di culto che ha cambiato tutto?

Per la Pausini è stato vincere Sanremo a 18 anni. Per tutto il documentario cerca di capire chi sarebbe stata se quell’anno La Solitudine non fosse stata prima in classifica in mezza Europa.

Sul mio blog il tempo è diviso in “before” ed “after”, il punto 0 è l’anno 2015, l’anno del mio Erasmus. Ho sempre considerato quell’evento come la rivoluzione copernicana della mia vita. Da quell’anno tutto ha cambiato forma, dimensione. Le paure, il coraggio, il mondo stesso, io. Cosa sarebbe stato di me se non avessi scoperto, dal mio compagno di università riccioluto, che le borse di studio Erasmus erano accessibili a qualsiasi classe di reddito? Che persona sarei? Quante lingue parlerei?

Più domande mi pongo e più mi rendo conto che forse, in un modo o nell’altro, sarei diventata cittadina del mondo comunque. E allora forse non è quello il bivio che ha condizionato il mio presente. Divago, ma lo so benissimo, è semplice, ma dirlo ad alta voce lo rende qualcosa di passato ed irrealizzato. Scriverlo lo rende quasi ipocrita. La vera scelta che ha condizionato e condiziona la mia vita quotidiana è stata quella di non intraprendere la carriera giornalistica.

Ecco, l’ho scritto.

E non voglio scriverlo di nuovo, perché è un desiderio così recondito, così intrinseco in me, che non voglio lasciarlo andare via, non voglio classificarlo nel passato. Mi ciondolo ancora nell’idea che non sia un sogno da chiudere nel cassetto, ma una passione modellabile come il pongo ed adattabile ad ogni vita. È una tiritera che regge spesso, finché non scoppiano le guerre, finché non smettono di aumentare i follower su Instagram, finché qualcuno mi legge, finche non leggo la Fallaci, finché non vedo giornaliste della mia età avere un successo che in qualche modo vorrei condividere con loro.

Ma torniamo a noi. Fermata Palais de Justice. La temperatura è perfetta, non mi ha ancora dato Moro di pentirmi della giacca lasciata a casa. Ho una decina di minuti di camminata a piedi fino all’ostello e questo mezzo chilometro è sufficiente per decretare Bordeaux la Sevilla di Francia. Che sensazione magica. La cattedrale è imponente, la torre Pey Berland mi ricorda così tanto la Giralda. C’è pure la sabbia in un angolo di piazza e gli attraversamenti pedonali sono segnalati per gli ipovedenti proprio come nella capitale andalusa, manca solo l’incisione no8do. Vorrei passeggiare ancora un po’, ma forse togliere lo zaino dalle spalle potrebbe essere una buona idea, cosi, preventivamente.

Gabri, prossimo viaggio qui.

Il profumo di pizza è fortissimo, ma io penso solo ai croissant di domattina.

Buonanotte Francia.

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