All’aeroporto di Mumbai ci sono una marea di palme. Sembra di essere in una giungla. L’umidità lo conferma. Siamo nella foresta però ci sono i cartelli che indicano il punto di raccolta per Uber. Benedetta concorrenza. Condivido lo stato del viaggio ad Hashril e via, dentro il chaos.
Clacson, pubblicità, tuc tuc, due divinità di cui devo ancora scoprire il nome che ci proteggono dal cruscotto della macchina, il profumo inebriante dell’autista, in moto con il casco attaccato al braccio, bambini in divisa che si dirigono verso scuola. L’ingresso degli slum sembra essere annunciato dal loro nome, come i festoni di quartiere nei nostri paesini.
Case screpolate, grattaceli, ciabatte, camion decorati, lamiere sormontate da teloni in plastica fissati con mattoni.
La mappa segna 6 minuti e siamo ancora in mezzo al caos più totale.
Mercato dei fiori, ragazzini in camicia con lo zainetto, rifiuti, insegne dei negozi coloratissime, grate alle finestre, due vacche, un cane, sacchi di yuta.
È il momento in cui capisco che sarà sempre il caos, meglio che mi ci abitui subito.
Un signore scalzo, accampamenti bordo strada, spazzatura, travi a vista, clacson, no casco, si mascherina.
4 minuti.
In 3 in motorino. Alle 7 del mattino i clacson non sono poi così tanti. Una via contromano.
2 minuti.
Forse non era contromano, si guida a sinistra.
Merda.
1 minuto.
È fatta.
La cameretta che mi è stata riservata guarda a nord est della città, vedo la stazione di Dadar e Mumbai dall’alto. Sono al 16º piano di una torre nel centro geometrico della città. Gli infissi sono ottimi, le finestre sono chiuse, ma dai suoni che riescono a penetrare sembra di essere in un piano rialzato. Ho il bagno in camera, a disposizione per attacchi di diarrea e mi sento fortunata.
Sono arrivata alle 6 di mattina del 3 agosto e sembra sia passato tantissimo tempo. La città mi ha centrifugata, le persone con cui sono entrata in contatto prima di partire mi hanno sballottolata è riempita di nozioni.
Dopo 3 giorni vissuti un po’ di corsa, un po’ in affanno, mi fermo un attimo, sul water, a mettere insieme le idee.
“Come sta andando?” Mi ha chiesto Alex, un ragazzo indiano che ho conosciuto in aeroporto ad Abu Dhabi. Lui tornava in Italia, io andavo. “Bene, è tutto come mi aspettavo, ma x10”. X10 significa una moltitudine di tutto, un purpurrì che ha mandato in escandescenza i miei sensi. Così ho deciso che, in questi primi giorni almeno, non avrei fatto altro se non registrare.
Usare tutti i miei sensi per prendere coscienza di quello che ho attorno. Usare gentilezza e spavalderia per chiedere informazioni su quello che non è comprensibile solo con il mio filtro. Ho preso, chiesto, visto, annusato, cercato di non vedere, toccato e assaggiato.
X10 significa che nella mia testa l’India era questa qui: caos, odori, rumori, sapori, gentilezza, accoglienza, ma la mia immaginazione non arrivata a mettere tutto insieme, scekerarlo ed ottenere tutto questo. Tutto questo.
A Mumbai vivono 25 milioni di persone. Anche se i numeri officiali sono molto più bassi. È la città con maggior densità di popolazione al mondo. Qui le persone vivono in grattacieli nuovissimi, palazzi fronte mare, palazzine fatiscenti, slum, nelle stazioni e bordo strada. A Mumbai c’è il più grande slum del mondo, nel quale abitano e lavorano circa 1 milione di persone (mezza Milano). Mumbai è Milano dell’India, il centro economico del paese ed è un magico caos che cammina. Un incastro di povertà, ricchezza, devastazione, lusso, sporcizia, profumi, puzze, musica, traffico e treni in perfetto orario.
La città pullula di vita e di sofferenza e gli occhi umili ed abituati delle persone che la abitano, per istinto di sopravvivenza, imparano a non vedere.
Per incentivare l’istruzione, obbligatoria fino ai 16 anni, a Mumbai e sempre in più città dell’India, nelle scuole pubbliche i bambini ricevono un pasto al giorno. Per incentivare l’istruzione femminile e ridurre il numero di aborti, al momento dell’iscrizione a scuola, il governo apre un conto in banca a nome della ragazza, sul quale versa 5000 rupie per ogni mese di scuola. Se terminerà gli studi avrà un posto garantito come dipendente pubblica.
Qui ho avuto la fortuna di incrociare il mio cammino con una famiglia che mi ha adottata, riempiendo le mie giornate di conoscenza, stupore, sfide ed affetto. Con una giornalista che è stata mia guida spirituale, più che turistica. Con decine di ragazze che hanno ricambiato i miei sorrisi. Con centinaia di sguardi incuriositi.
Mi sono sentita molto bianca, tanto protetta, troppo accolta.
Camminando, con il mio spacco di 20 centimetri fino a metà coscia, estremamente osè, o in pigiama, ho aguzzato i vista, udito ed olfatto, cercando di tenere a bada il tatto e prendendomi cura del gusto.
Mumbai ti investe e non puoi fare altro che lasciare che ti sorregga, ti porti a galla e ti spinga come la corrente, finché non impari a nuotare. Di notte. Nella tempesta. In un mare inquinato, ma pieno di appigli.
Dopo 3 o 4 giorni, quando i tuoi sensi si sono adattati al caos ed al disordine, puoi iniziare a vedere il bello. Non nelle persone, quello è evidente già dal primo minuto in questa terra, ma anche nei luoghi. L’occhio inizia a notare gli scorci di bellezza molto nascosti, le orecchie mettono in secondo piano i clacson e si concentrano sulle risate, il naso… no il naso no, quello per fortuna o sfortuna rimane vigile.
A seguire, il caos che i miei sensi in fibrillazione hanno percepito. Il 10x di cui ho parlato con Alex. Immaginate quanto elencato separatamente, in questo elenco non puntato e poi scekerate, remixate, tappate il naso e mandate giù: ecco a voi Mumbai.
Odoro.
Odore di gas di scarico, umidità, odore di pipì, di fritto, McDonald, frutta, erba. Odore di incenso, di fiori, biscotti al burro.
Sterco. Bucato. Finché distinguo gli odori significa che se puzzassi me ne accorgerei?
Focaccia al rosmarino, ravioli, pesce fresco, salsedine, spazzatura. Non solo fritto, ma proprio fritto misto.
I piatti prima di assaggiarli, per controllarne la piccantezza.
Sento.
Rumore di clacson, voci, clacson, sega elettrica, ciabatte che strisciano, clacson, calce stesa, telefonate negli aiuricolari, rotaie, i video di Instagram di qualcun altro, monetine dei biglietti del bus, ammortizzatori, cigolio di porte, aria condizionata, il nome della prossima fermata. Musica hindi. Il canto del muezzin. Il silenzio, per 3 secondi, quando le macchine sono ferme in coda. Il clacson è un monito, un avvertimento, serve per evitare collisioni, non per sgridare le persone.
Voci su voci su voci, come in un ristorante pieno di italiani a Parigi.
Vedo.
Persone saltare sui treni e dai treni.
Occhi che, quando si incrociano con i miei, rispondono ai miei sorrisi.
Uno stuolo di piccioni che mangia mais in mezzo ad una piazza che sembra adibita apposta per loro.
Eleganti sari adornati di perle luminose, uscire dall’hotel Taj Mahal.
Gli occhi di Simona riempirsi di commozione, quando mi parla della sua famiglia.
Gazze, un bambino scalzo che gli lancia riso soffiato e pietre. Un signore che mi vede attonita e mi sorride dolcemente, connettendosi.
Se c’è la A o la C davanti al numero dell’autobus, allora ci sarà l’aria condizionata.
Divise color cachi, per forze dell’ordine e dipendenti pubblici come gli autisti degli bus.
Un uomo cuce un abito fucsia, con la macchina da cucire. Mi sorride, “parshi dress”.
File indiane per salire sull’autobus. Indiane.
Una coppia anziana, in auto, entrambi di carnagione bianca, che esce da un palazzo verde tenue, splendido. Lui mi sorride.
“No mask no entry” e nessuno indossa una mascherina.
Un signore ipovedente che conta le monetine che ha in mano, sentendone il peso.
Uomini che fanno il bagno in canottiera. Bambine truccate. Persone mutilate. Un cavallo in mezzo dall’incrocio.
Autista del taxi che si sciacqua la bocca e sputa per terra dal finestrino.
Bambini nudi seduti a terra.
Solidarietà femminile negli occhi.
Tutti i camerieri del ristorante a piedi nudi. Leccate goduriose di dita piene di salsa.
Capre che leccano specchietti di motorini.
Persone prendere cose dal mio piatto, come fosse il loro. Bere dalla mia bottiglia, senza appoggiare la bocca, come se fosse mia, ma senza chiedere.
Bagni senza carta igienica, qui si usa il doccino.
Persone a piedi nudi. In casa, nei negozi, per strada. Piedi nudi ovunque. Piedi curati e devastati. Nudi. E lì vedo solo io.
Il contachilometri girare e raramente superare l’euro.
Le luci dei grattacieli che si illuminano ogni 3 secondi, per segnalare la loro presenza.
La città che non dorme mai, dal tetto della torre che mi ospita.
Una commedia, in hindi, sul divano, con la mia famiglia adottiva.
Movimenti della testa che significano si, no e tutte le sfumature possibili ed immaginabili tra il si ed il no.
Un gruppo di studenti del college alla macchinetta dei biglietti del treno. Sicura che parlino inglese, gli chiedo se gentilmente possono prendermi un biglietto, così da evitare la coda. Alle macchinette si paga solo con valute digitali, ma non internazionali. Devo insistere davvero tanto perché accettino di prendere i miei contanti, volevano regalarmi il viaggio.
Una delle studentesse mi prende sotto braccio e mi accompagna fino a destinazione.
Baba mi accalappia per strada, parla di karma e sa dire “ciao” in italiano, ma soprattuto lavora in un’agenzia turistica. In mezz’ora ho speso 350€ per tutti i biglietti di voli e treni che forse prenderò nei prossimi giorni. O perderò.
Il pi grande slum di tutta l’Asia.
Fabbriche di 5 metri quadrati. Pellami, riciclo plastica, denim, ceramiche.
Bambine in uniforme con le treccine scendere scalette in metallo, salutarmi e correre a scuola.
Tre ragazze che sanno come fare le foto davanti ad un monumento, gliene chiedo una ed ecco che mi trovo ad una cena di compleanno in un ristorante francese di nome Soufflé.
Ponteggi legati con corde.
Una città che ora mi è famigliare, dal finestrino.
Mi dicono.
“Non prendere il bus”. Ma quello con l’aria condizionata me lo concedono.
“Prendi la prima classe sul treno”. Poi cedono “O al massimo stai nei vagoni solo per donne”.
“Chiedi i piatti jail, non troverai cipolle ed aglio.” Ma anche “Stai attenta che anche i piatti jail possono essere piccanti.”
“Stai a sinistra con la bici”. E poi stanno a destra.
“Attenta all’acqua del rubinetto”. Però in realtà quella in bottiglia è meno sicura di quella filtrata in casa.
“Non è piccante”. E poi è piccante.
“Masala non significa piccante, significa mix di spezie” Piccanti.
“Assaggia”. E non sanno che male fa fare la cacca dopo aver mangiato piccante.
“Non dare la mano sinistra, non mangiare con la mano sinistra”. E mangiano con la sinistra.
“Mangiamo con le mani” e mi passano le posate.
“Ti è piaciuto?” E rispondo sinceramente.
“Qual è stato il turning point della tua vita, fin ora?” E mi ritrovo a raccontare cos’è il progetto Erasmus sul tetto di un palazzo a Mumbai.
“Mi piacerebbe tanto rivederci, ma piove” e non ci vediamo davvero.
“Seguimi, ti accompagno io” e Google maps muto.
“Hai Instagram?”
Ghandi è stato insignito con il nome di “Bapu” dell’India, ovvero padre. Con il suo movimento per la libertà ha avuto un ruolo così importante per l’indipendenza indiana che compare su tutte le banconote.
“Pratichi qualche arte marziale?” “Non ancora” rispondo. Ho imparato a non rispondere semplicemente negativamente, ma a lasciare sempre la porta aperta con un “not yet”. “Ma sono sicura sapresti correre veloce”. Non ho dubbi amica.
“Conosci Sadhguru?”.
Percepisco.
La pelle di Simona quando non posso fare altro che abbracciarla, dopo aver vomitato il dolore che si porta dentro dell’infanzia.
La consistenza dei cibi. La croccantezza dei dosa, la morbidezza degli adli.
Aria condizionata gelida.
Pioggia fin nelle mutande.
La temperatura e pulizia del suolo che ho sotto ai piedi, nudi.
La leggerezza delle rupie, il suono tonfo delle monete d’alluminio.
La morbidezza del dicano in velluto, la rigidità del materasso.
Il vento che entra dalle porte aperte del treno.
Le gocce d’acqua che cadono dai tendoni dello slum di Dharavi e che non riesco ad evitare.
Il suolo fangoso e scivoloso sotto le mie ciabatte.
Il calore dei roti e dei nen appena cotti, sulle dita.
Le mani degli altri in un piatto che non è mai solo mio.
La malinconia, sul mio primo letto indiano, mentre una scarica di pioggia si abbatte sulla città e sulle mie finestre, ricordandomi in che stagione siamo. La malinconia all’idea di andarmene già, proprio ora che iniziavo a conoscere i binari dei treni ed i rifiuti iniziavano a passare in secondo piano. Proprio ora che iniziavo a sentire mia la città.
Buon viaggio.
Dear Doralice,
This is so beautifully written that I got to experience the city from a whole new perspective myself! I’m so glad you had a good trip and I’m super excited to see you again sometime soon! Thank you for being a part of our family, which you will be forever now! ❤️🤗
Btw my favourite part was – “People take things from my plate, like it was theirs. Drinking from my bottle, without resting your mouth, as if it were mine, but without asking.
Bathrooms without toilet paper, the hand shower is used here.” 🤣🤣🤣
Lots of love ❤️ Enjoy the rest of your amazing trip! Can’t wait to read the next post!