Un deserto di gentilezza – My Times of India n.0

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01.01.2022

Gli aerei Ethiad hanno le coperte celesti come il cielo fuori dall’oblò, come l’ambito ed il velo della signora accanto a me. Elegante, sorridente, mamma di tre ragazze e con le unghie delle stessa forma di quelle di mia nonna. Un po’ piatte, a pianta corta, lasciate crescere, ma non troppo. Mi cade l’occhio mentre appoggia una mano sul braccio del marito e con l’altra lo aiuta a decifrare le impostazioni degli schermi di fronte a noi. Lui dormicchia, lei ha sempre un occhio mezzo aperto. Quando lui deve andare in bagno è lei che prova a parlarmi in inglese. Quando aprono un pacchetto di pringles è lei che me le offre, sfoderando ancora una volta un sorriso materno. Davanti a noi ci sono 3 ragazze, tutte sue figlie. Sono capitata in mezzo ad una famiglia e la mamma non manca mai di includermi. Tutte le mamme del mondo sono semplicemente mamme.

A volte mi chiedo perché abbiamo così poco potere sulla nostra memoria. Perché non possiamo scegliere di dimenticarci com’eravamo vestiti alla festa di compleanno dei 19 anni di Bea e ricordarci invece tutte le date delle guerre Puniche? È una domanda ricorrente in questo periodo e quando si parla di memoria penso a Goleman, ma soprattutto ad Inside Out. Questo quesito si porta dietro delle valutazioni – che altro non sono che voli pindarici – su quello a cui rinuncerei io e quello a cui rinuncerebbero le mie amiche. Io, per esempio, qualche canzone la lascerei anche indietro, MEP no.

Ci ripenso stamattina, di fronte a quelle unghie. Se la mia memoria fosse più pilotata, avrei mai scelto, consapevolmente, di storare per sempre le unghie della nonna? Probabilmente no. Ed è per questo che la accetto e la apprezzo, per la sua capacità di focalizzare ed interiorizzare piccoli dettagli che diventano parte di me.

E ancora.

Life on Mars.

Coperte usate come mantelli.

Piedini di bimbo.

Mani della nonna.

Giocare a Ruzzle da sola, ma spiritualmente contro il signore barbuto qualche sedile davanti a me. Batterlo, anche se lui non ne sarà mai a conoscenza.

Il ragazzo dei tamponi che si preoccupa di mandarmi su whatsapp i risultati.

Lhan, un signore filippino dell’impresa di pulizie dell’aereoporto cui condivido il viaggio in bus che mi mostra le foto della figlia che vive con la madre.

La sauna.

Parchi giochi accessibili.

Campi per qualsiasi sport in spiaggia.

Fermate del bus con l’aria condizionata.

Domani vado al Louvre.

02.02.2022

Fa caldo. Molto caldo. Un caldo che non da tregua nemmeno all’ombra. Un caldo che asciuga la bocca. Un caldo che rallenta i pensieri. Un caldo opaco.

Esco dall’hotel verso le 11.00, l’autobus dovrebbe passare in pochi minuti, ma è in ritardo. Quasi tutte le fermate degli autobus al posto delle pensiline hanno dei box rinfrescati dall’aria condizionata, ma questo è rotto. Dentro fa più caldo che fuori. Mi metto sull’uscio e provo un leggero piacere solo perché l’aria calda, a contatto con il mio sudore, sembra rinfrescante. È un piacere effimero, dura poco, il sudore si asciuga e la morsa di calore mi abbraccia. Non c’è nulla che possa fare, quindi attendo.

Il primo giorno di mestruazioni non è adatto a questo clima, ma forse nemmeno la vita lo è. Vedo umani entrare nelle macchine, uscire per qualche secondo, per poi rientrare in luoghi in cui l’aria condizionata è a 15 gradi. Esseri umani che saltellano dove la pietra non scotta, si rinchiudono, si proteggono, scappano dal calore. Per un attimo mi sembra di vedere quello che succederà tra un paio di anni, anche in Europa, se non agiamo rapidamente limitando il nostro impatto sul surriscaldamento globale. Dovremo muoverci anche noi in questo modo: inscatolati.

Ad aspettare l’autobus con me un gruppo di ragazzi, tutti rigorosamente con la loro mascherina anche all’esterno. Estenuati dall’attesa si dividono per andare a prendere un po’ d’acqua, ma non prima di avermi chiesto se ne voglio un po’ anche io. Tornano vittoriosi con una bottiglia che suda, quando il 96 finalmente si ferma davanti a me. Mi accomodo davanti, vista strada, anche se questo strada si assomigliano tutte. Sbircio il telefono della ragazza accanto a me, sta giocando a chi vuol essere milionario e mi scappa da ridere. Lavora in uno dei bar del Louvre, da un paio d’anni si è trasferita qui dal Kenya, dove il clima – per la cronaca – è tropicale e non fa questo caldo. Se non fosse stato per lei, sarei scesa alla fermata precedente: mi ha bloccata, credo vedendo la mappa che avevo in mano o notando semplicemente la mia faccia da stolta viaggiatrice.

Il Louvre di Abu Dhabi è costruito sul mare, l’acqua s’interseca tra le sue forme squadrate, sormontate da una sinuosa cupola che lo rende leggero alla vista.

Le opere sono disposte cronologicamente dalla prima alla dodicesima sala e si focalizzano sul confronto tra oggetti simili, di epoche vicine, provenienti da luoghi lontani l’uno dall’altra. Un contrasto ed una vicinanza poetici. Mi ci perdo.

Gli umani sono sempre uguali, penso nella prima sala, mentre mi pento di aver lasciato il foulard in hotel.

Spostali, dividili con km di terra e tonnellate di acqua, cambierà poco.

Tante sfaccettature dello stesso ingegno, spirito di sopravvivenza, lusso.

Cambiano i materiali, cambia leggermente la posizione della mano in preghiera, cambia la trama, cambia la forma degli occhi, ma non cambia come si tiene in braccio un bambino, come viene rappresentata la maternità, dove si ripongono le ceneri degli antenati. Sono forme e condizionati dagli usi, ma sono tutte attività condizionate dal l’umanità che ci contraddistingue. Anfore alte e oblunghe, basse e larghe. Astucci in metallo o paglia. Piatti fondi o piani. Sempre anfore. Sempre astucci. Sempre piatti. Per trasportare. Per scrivere. Per mangiare. Passano i secoli, cambia la tecnica, rimane la necessità primaria, che viene soddisfatta con tecniche sempre più sofisticate, si moltiplicano quelle secondarie. Tutto quello che cambia è arte, personalizzazione, ingegno, genio. È quello che ci lascia a bocca aperta di fronte ad un’opera: è un piatto, ma poteva essere semplicemente bianco, avorio, di ferro, invece no, è decorato. Poteva essere tondo, invece cambia forma. Poteva essere composto da un materiale solo, invece è un connubio di elementi.

Chissà cosa provava il curatore del Louvre di Abu Dhabi quando affiancava un piatto turco, uno messicano ed uno tedesco. Una statuetta di madre libanese, francese, cinese. Secoli vicini e lontani. Istinti primordiali immutati. Forme preziose d’espressione. L’evoluzione dell’umanità attraverso le opere. La scoperta. Le mappe, della terra e delle emozioni.

Che magia.

I miei pensieri sono interrotti dalla risata di un addetto alla sicurezza che, vedendo una mamma fotografare le figlie di fronte a due cavalli in ferro, ride. Ride fragorosamente. Per un attimo credo gli abbiano detto qualcosa via radio, ma non ha l’auricolare, le guarda e ride in una maniera così infantile da risultare più buffa che irrispettosa.

Le religioni occidentali rappresentano le divinità con forme umane. Addirittura con incarnazioni negli uomini. In Africa sono spesso affiancate a figure animali. Gli induisti invece lasciano più spazio alla fantasia, rappresentando le loro divinità, come Shiva, con più gambe o più braccia.

Io in questo momento potrei rappresentarle alle guida di un autobus, con le sembianze dei due ragazzi pakistani che mi hanno aperto le porte del loro bus privato, per farmi aspettare al fresco il bus di linea. Credevo stessero aspettando i turisti che hanno accompagnato, finché non sono scesa e li ho visti partire. Ho il cuore accaldato e commosso.

La gentilezza mi sbalordisce, è chiaro.

Lo dico ad alta voce mentre scendo dal bus 161 e l’autista suona il clacson per attrarre la mia attenzione ed indicarmi dove attendere il prossimo bus. Sul 94, il precedente, mentre chiacchieravo con una coppia spagnola conosciuta alla fermata, il ragazzo si è accorto di essere seduto nella zona riservata alle donne. In imbarazzo si è alzato, scusandosi. È intervenuto un altro passeggero, un ragazzo della sicurezza della moschea che avevamo appena visitato invitandolo a sedersi: “please sit down, you are a tourist, you must feel welcome. Like mi casa es tu casa”. I turisti possono non rispettare il cartello “ladies only” insomma.

Sono state 36 intense ore in questa calda, nuova, consumistica, città. Ho visto le uniche tre cose che mi ero prefissata di vedere: il Louvre, la moschea dello sceicco Zayed ed il letto dell’hotel. Tutte e 3 le attrazioni sono state stupefacenti, ma mai quanto gli umani che le popolavano, mai quanto gli umani che per qualche strana ragione hanno deciso di abitare in questa sauna. Sarà il mal comune che diventa mezzo gaudio, sarà che soffrire insieme rende più empatici, sarà che invece di prendere il taxi mi infilo sugli autobus con la plebe, sarà che per gli europei c’è un occhio cuorioso, sarà che quando incrocio lo sguardo di qualcuno, nel dubbio, sorriso.

Forse è una gentilezza indotta, sono stati istituiti ad essere gentili. Nella moschea dello sceicco Zahid, una delle più grandi del mondo, costruita tra il 1995 ed il 2004, ogni ora c’è una visita guidata. Alla visita delle 20.00 ero interessata solo io e così Sahim è stata la mia guida personale. Prima di iniziare il tour ha dovuto accendere un registratore, che portava attaccato alla tunica. Sciolinava numeri di cupole, minareti, metri quadri, colonne. Il grande fratello che ci osservava non mi ha inibita dal far notare che la moschea è un connubio di arte marocchina, araba, tunisina, persiana, ma con materiali italiani. Marmo, madre perla, vetro di Murano, tecniche mosaicali Made in Italy, tranne il tappeto più grande del mondo che è Made in Persia. Uno sfarzo incredibile, in gran parte artigianale.

Sul tappeto più grande del mondo i turisti non possono arrivare in autonomia, ma solo guidati. Viene aperto ai fedeli solo qualche volta all’anno, durante il Ramadan. In quell’occasione la moschea si riempie di migliaia di umani in preghiera rivolti verso la Mecca. In quel momento però, sul tappeto, a guardare verso la Mecca, c’eravamo solo noi ed il grande fratello. Tutti gli altri turisti alle nostre spalle, ignari della possibilità di accedervi solo con la visita guidata, ci fotografavano sbilanciandosi oltre la corda che delimitava l’area. Mi sono sentita fortunata.

Alla fine del tour quando il registratore è stato finalmente spento, ho scoperto che le registrazioni sono per controllare la qualità dei tour e l’attitudine delle guide: “a volte i visitatori hanno toni spiacevoli e noi dobbiamo mantenere le calma” dice Sahim. Ha iniziato a fare la guida 2 anni fa, dopo la prima ondata di covid. Dopo gli studi in finanza, ha scelto di guardare in faccia turisti da ogni dove e prendere qualcosa da ognuno di loro, piuttosto che dal mercato e dai numeri. E nato e vive ad 1 ora e mezza da qui, una tempistica del tutto normale per la zona, ed è anche lui a pieni voti un’esponente del team gentilezza.

Non lo so cosa sia, dicevo, ma avrò qualche altro giorno per scoprirlo alla fine di questo mese, per ora ringrazio. Tutti. Come direbbe qualcuno, il luogo è un 4, però la gente è da 10.

Ciao Emiratini, volo dove potrò mettere i crop top, che qui sento gocce di sudore scendere dalla schiena alle mutande e non è piacevole.

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