Sacralità e spazzatura, tra le vie di Varanasi – My Times of India n.2

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Appena atterrata a Benares, antico nome di Varanasi, presa dall’emozione, osavo scrivere:

07/08/2022

“Varanasi è ad un altro livello.

Anche se i ponteggi sono sempre sorretti da corde, è ad un altro livello. Me ne accorgo sulla strada dall’aeroporto alla città, 1 ore di taxi condiviso con Simran, e la speranza che la macchina non ci lasci a piedi, dal momento che si è già spenta ripetutamente. Simran è interior designer e sta tornando a casa dai suoi 5 fratelli, per celebrare il giorno della fratellanza, l’11 agosto.

Fa caldo, ed è umido. Molto più caldo che a Bombay. Deduco una situazione diversa dall’asfalto perfetto, dal traffico moderato, dalla sporcizia più concentrata e non ho ancora visto uno slum dopo mezz’ora di tragitto.

Simran, seduta sul sedile posteriore, accende dal suo telefono la musica ed inizia a cantare, tra una telefonata e l’altra. Quando mi saluta, il taxi resiste ancora un paio di metri per poi spegnersi inesorabilmente in mezzo alla strada.

L’autista mi parla a gesti, disperato, sale e scende dal mezzo. Male che vada ne prenderò un altro – penso – e mi godo lo spettacolo mentre il sudore inizio a grondare sotto la camicia che mi ha regalato la mamma di Harshil e che non potevo non mettere, ma che è caldissima.

Un tentativo, due, cinque, ripartiamo.

“In centro non possono entrare le macchine, ti lascio qui.” Mi fa capire in qualche modo. A riprova della civiltà di questa città: il centro pedonale.

Mappa: direzione Assi Gath, dove mi aspettano Santosh, il gestore di Purple Lotus, la guest house che mi ha consigliato Sara ancora prima di partire, e Shunya, il couchsurfer che non poteva ospitarmi, ma con cui andrò a pranzo.

India pt.2. Benvenuta nella città sacra.

Dove le persone sognano di morire, per andare in paradiso.”

A distanza di qualche giorno mi rileggo e rido. Piccola europea stolta. Scesa dal mio taxi claudicante, il centro finalmente pedonale si è impadronito del mio tempo, della mia attenzione, di me, per 4 giorni. Dopo i primi passi sembravano troppi. All’idea di partire ora sembrano troppo pochi.

Ecco cos’è successo in questi santi, contrastanti, giorni. A spizzichi e bocconi, l’impressionante, mistica, magica, Varanasi.

07/08/2022

Giusto il tempo di lasciare lo zaino e constatare che la doccia non è una doccia e scendo.

Shunya mi aspetta all’angolo della strada “I am on bike. With pink kurta and yellowish pyjama”. Ed eccomi in sella ad una moto farmi largo tra la folla di questa nuova città. Per strada noi, pedoni, carretti, food truck, mercati, tuc tuc piccoli e grandi, richò, scooter, moto, vacche, cani, bici, bici che trasportano qualsiasi cosa. Dalla strada principale ci infiliamo nel centro vecchio. L’asfalto perfetto lascia il posto al pavé, le viuzze si stringono sempre più ed i millimetri che ci dividono dagli arti delle persone si riducono proporzionalmente. Frena, salta, suona il clacson. L’esame della patente dello scooter dovrebbero farcelo fare a Varanasi, altroché coni e slalom.

È ora di merenda, ma non ho ancora pranzato, così ordino un Tali. Un piatto diviso in scoparti diversi, al centro il riso basmati, accanto zuppa di lenticchie, verdure masala, patate, yogurt. Buono, piccante, troppo, 3€.

Shunya ha 36 anni, è stato giornalista, ha scritto un paio di libri, la sua famiglia ha alcune proprietà il che gli permette di lavorare a singhiozzo. Sono colpita subito dal tono della sua voce, basso, pacato, caratterizzato da lunghe pause e spazio per l’ascolto. È insolito e rilassante. Inizialmente mette quasi a disagio, ma con un attimo di confidenza, si concilia con il luogo nel quale ci troviamo.

Lasciamo il ristornate per andare, finalmente, ad affacciarci sul fiume. Non mi sono fatta spoiler in alcun modo. Io di Varanasi non avevo visto nemmeno una foto. Avevo solo letto e sentito dire, era tutto frutto della mia immaginazione è quello che vedono i miei occhi, ora, lo vedono per la prima volta.

Una gradinata ripida, che si tuffa direttamente nel fiume, ora che è alto ed ha coperto la passeggiata che lo costeggia durante il resto dell’anno. Un ampio corso d’acqua dal letto larghissimo, nel quale galleggiano barchette colorate, in legno, ormeggiate vicino alla riva e corpi a stella marina. Il colore dell’acqua è tortora, a metà tra il giorno ed il marrone. Vicino alle sponde fanghiglia, sacchetti della spazzatura e persone che si svestono, pronte ad immergersi. C’è chi si lava, chi gioca con i capelli, chi immerge solo i piedi e chi anche la testa. C’e chi raccoglie l’acqua e chi lava il bucato. Di primo acchito il colore dell’acqua mi inorridisce. Vedere un nonno, mano nella mano con il nipote, lanciarci dentro un sacchetto di spazzatura, mi fa rabbrividire. Parallelamente però ci sono le risate di chi ha l’acqua fino al collo. Le mani che si stringono per non scivolare. Amici che si schizzano.

Shunya rispetta la mia curiosità e mi lascia guardare. Mi dice che questa è la sua routine: andare nel bar dove abbiamo pranzato, prendere un chai, venire a vedere il fiume. È zio, ma non è spostato, cosa che preoccupa enormemente i genitori soprattutto la madre, che proprio in questi giorni – scoprirò – ha chiesto vengano ufficiate un paio di punja a casa sua. Per benedire un nuovo appartamento e pregare affinché suo figlio si sistemi. Lui non è incredibilmente credente, ma lei si e non manca di farglielo notare.

Il cielo si fa scuro e, nonostante la vita sul fiume continui, andiamo a bere qualcosa. Mi consiglia di tornare domattina, all’alba, per vedere uno spettacolo diverso. Per la prima di tante sere, finche il sonno non prende il sopravvento, andiamo da Terracotta.

8/08/2022

Attenzione a dove metti i piedi. Grazie. Pavimento dissestato, pozze, guarda anche in alto e non picchiare la testa, stoffe, fili della luce, attenta agli scooter, carretti, cani, gradini, ciabatte, merda. Merda. L’ho presa. È di vacca, merda sacra, mi porterà fortuna.

Cosa succede ad Assi Ghat alle 5 del mattino, il giorno di Shiva, nel mese di Shiva?

Pensavo che la sveglia alle 5 fosse sufficiente per arrivare prima della folla e godermi la pace silenziosa. Stolta.

Il sole non si è ancora rivelato, ma diverse funzioni sono in corso, parallelamente. In suo onore. Al contrario della sera, dove le cerimonie sono dedicate al fiume. In semicerchio alcuni uomini fanno roteare delle grandi piume, in un rituale che termina raccogliendo l’acqua sacra in un’anfora di metallo. Sotto un chiostro una funzione totalmente gestita da una donna, che investe con fiori arancioni tutti i fedeli. Nel frattempo nel Ganga, il nome del Gange in hindi, c’è già chi – impavido – si bagna o semplicemente fa il bagno. Tra gli impavidi, stamani, c’è anche una coppia spagnola che piazza entrambi i piedi dentro l’acqua grigiastra, prima di chiedermi una fotografia. E ancora un uomo con la compagna recitano altri testi (mantra) sacri, cantando. Mani giunte, qualcuno prega stingendo tra le mani una collana che ricorda molto un rosario (rudraksha). Gambe incrociate, mani in posizione dell’om. Qualcuno dorme ancora. Qualcuno ha già iniziato a lavorare: chi decora la fronte. Turisti indiani scattano foto a manetta. La maggior parte delle persone che è qui oggi è in visita, non vive a Varanasi. Bambini scorrazzano, saltellano, si spogliano e si tuffano. Lumini riposti nell’acqua (blazing candles), finché non si spengono e contribuiscono all’inquinamento del fiume. Ricordano quelli dello Stella Maris di Camogli, ma non sono biodegradabili. Schiene nude. Mutande di stoffa intrecciata. Giapponesi con la mascherina. Sari da urlo. Il sole è spuntato e prontamente sono arrivati un paio di ombrelloni a coprire i commercianti, per non farli squagliare. Aprono anche i bagni pubblici. Santoni (Holi man) con le loro lunghe barbe, pelle ed ossa, bastone nella mano sinistra, piedi nudi, girano il Ghat come fosse casa loro. L’arte d’indossare il sari, Tutorial dall’alto.

Quello di ieri sera era uno spettacolo intimo, in un piccolo Gath, questa è una cerimonia plateale.

Quando una religione non mi è famigliare, cerco tutte le associazioni ed i punti in comune con quelle che conosco. Credo fortemente che tutte le religioni abbiano più punti in comune che differenze. Li hanno nella natura della loro esistenza e nei loro rituali. Nella coralità, nell’intimità, nella teatralità e nel silenzio. Ecco, il silenzio. Quella cosa che non caratterizza questa di religione e nemmeno le mie giornate.

Aamir è un ragazzo di religione musulmana che, ho già capito, non mi mollerà per un po’. Sono solo le 7 di mattina, la città è viva come fosse mezzogiorno e le sue strade sono uno scivolo che porta al vecchio tempio di Shiva. Migliaia di ragazzi, ragazze, signore, nonni, attendono pazienti in coda il loro turno per portare in dono a Shiva l’acqua santa raccolta in piccoli contenitori di plastica. Arancione ovunque.

Ci districhiamo tra la folla perché la nostra meta non è quella, ma uno dei burning Ghat, uno dei Ghat in cui vengono effettuate le cerimonie funebri e le cremazioni dei corpi dei defunti. Decine al giorno.

Quando arriviamo, con non poca difficoltà, un fumo bianco sovrasta l’intero Ghat, lasciamo alle nostre spalle una montagna di legna e Aamir mi indica una struttura nella quale c’è un corpo che viene cremato. Legna, barella, ancora legna, fuoco. Attorno i famigliari, ma solo uomini. Brucia, non si vede null’altro che legna e fumo, ma pensare che li sotto ci sia un corpo mi fa venire comunque i brividi. Gli occhi bruciano per il fumo, il cielo è azzurrissimo, sullo sfondo riesco a vedere decine di altri Ghat in cui la vita prende il sopravvento sulla morte. Un contrasto feroce. “Andiamo via”. Chiedo.

Girato l’angolo odore di incenso, canti, fiori, persone in processione. Un corpo. Ad altezza viso mi passa accanto il cadavere di un signore sulla 50ina, sormontato da splenditi fiori gialli ed arancioni e circondato da amici e parenti che lo sorreggono ed accompagnano.

Persone nascono, crescono, credono, sperano, fanno il bagno, vivono e muoiono ogni giorno, in ogni città del mondo, ad ogni ora. Muoiono in compagnia e vivono in solitudine o vivono in compagnia e muoiono in solitudine. Non so cosa mi aspettassi davvero da questa città, ma quanto più guardo questo fiume, tanto più mi sembra che ci sia sempre uno spettatore arguto e pacato, a guardare e proteggere chiunque gli cammini accanto.

Dormo. Mi risveglio per la punja della sera. Ore 6, di nuovo ad Assi Ghat. 12 ore dopo. Mi sembra di vivere 18 vite in una sola ed anche se ci sono migliaia di persone e sono strizzata tra un palchetto ed un gradino, questo cavolo di fiume riesce a prendersi tutta la mia attenzione, i miei occhi e la mia agitazione, rasserenandomi.

La cerimonia della sera coinvolge più persone, consiste anch’essa nel recitare mantra cantando e santificando, facendoli roteare, svariati oggetti, infuocati e non.

Chiedo ospitalità sulla panca della signora che vende le candeline, che mi accoglie e protegge la mia visuale chiedendo di spostarsi a chiunque la intralci. Mentre attendiamo l’inizio della celebrazione mi godo il mio momento VIP: bambini, ragazze, ragazzi, signore, vengono a farsi un po’ di foto con me. Ero stata avvisata di questa cosa, ma viverla è carinissima. Soprattutto quando sono i bambini a sfidare la timidezza. La bambina più impavida stasera si chiama Rushi, avrà 10 anni e viene da me 4 volte: la prima per chiedermi una foto, la seconda per farmi una foto con ogni membro della sua famiglia, la terza per chiedermi di cantarle una canzone e la quarta per chiedermi il numero di telefono. Gliela chiedo anche io una foto. Non voglio dimenticare il suo viso dolce.

Chiamo mamma. Ieri sera c’è stato davvero lo Stella Maris a Camogli, ma chi se lo ricordava? Il mio cervello aveva solo associato… qual è la differenza tra coincidenze e destino?

“Ci vediamo da Terracotta” mi scrive Shunya, “arrivo”.

Questi ragazzi, mi ispirano fiducia, ieri ne ho vista una da lontano e non sembrava così male, oggi sono coraggiosa e mentre faccio la fatidica domanda “mi parli delle caste?” gli dò una possibilità: ordino una pizza. Seguono due ore di disquisizione. Se c’è una cosa di cui devo imparare a parlare spogliandomi di qualsiasi preconcetto sono le caste. È davvero un esercizio difficile. Ne scriverò quando avrò avuto l’opinione di almeno un esponente per ogni casta, prima sarebbe prematuro e dopo sarà comunque superficiale. Respiro e cerco di non arrabbiarmi, devo capire.

9/08/2022

Vedo.

La città non lasciare mai il posto alla campagna. Vacche. L’antica arte della tessitura con il telaio. Processioni, caratterizzate da allegria ed un colore predominante per ognuna. Il succo della canna da zucchero uscire a fiotti. Iconografie di mucche sulle porte delle case. Un bambino spaccare il carbone in micro pezzetti. Braccia che penzolano dagli autobus. Statue di Buddah.

Mezzi contromano che intrecciano processioni. Moto, bici, tuc tuc, carretti, bici cargo. 5 persone su uno scooter solo.

Sento.

Odore di arachidi tostate. Alberi. Riesco a percepire quando dietro l’angolo si nasconde una vacca. Pelle. Spazzatura. Piscio. Vomito.

Oggi abbiamo lasciato il centro per andare a Sarnath, perché Varanasi non è la città sacra solo per gli induisti, ma è anche una delle città più importanti per i Buddisti. Si dice che qui il Gautama, dopo l’illuminazione, raccontò ai suoi primi 5 discepoli il percorso per raggiungere il Nirvana. A nord di Varanasi c’è una zona molto ampia in cui tra bancarelle e parchi giochi, si distinguono un museo ed un’area archeologica, ma soprattutto la casa del nonno acquisito di Shunya. Al primo piano di una casetta rossa, che se fosse trasportata in Italia potrebbe sembrare abbandonata, preceduta da un cancello in ferro arrugginito, tra 4 pareti piene di libri, vive Surnal con sua moglie.

Scale, ciabatte, porta, zanzariera e siamo nel salotto. Non posso dire di no al chai (non si può mai, ci rimarrebbero tutti veramente male, come rifiutare un caffè al sud), ma non posso dire di no a nessuna richiesta di quest’uomo. Mi incanta. La sua testa pelatina, il completo bianco composto da camicia e gonna di cotone, da cui spuntano arti gracili ed ossuti, la barba grigiastra, gli occhi che non smettono di fissarti e sembrano contenere il segreto della vita. Shuya lo precede e gli dice già che lavoro faccio. Ma a lui importa relativamente. “Cosa ti motiva?” Sono spiazzata “in che senso?”. “Cosa ti ha motivato ad essere qui, per esempio?” “La curiosità suppongo”. “La curiosità uccide i gatti. Lo consoci questo detto? Una persona troppo curiosa, per la sua curiosità può arrivare anche ad uccidere un gatto, per vedere che succede.” “Ecco, parlavo di sana curiosità”.

Sono nonni davvero, la loro unica figlia ha fatto il phd a Padova ed ora è tornata a vivere in India, a Chandigarh nello specifico, la città indiana disegnata da un architetto francese che non vi ha mai messo piede.

La moglie non parla inglese, anche se capisce. Per esprimersi sorride e ci invita a pranzo. Shuya rende nota la diarrea che mi ha afflitto dopo colazione e, per fortuna, anche a causa di un’ulcera di Surnal, mangiamo una gustosissima zuppa di lenticchie senza alcuna spezia, insieme ad un paio di roti e seguita dallo yogurt. Rifocillante. Bastava un anziano saggio per curarmi. Se è questa la medicina omeopatica orientale, è veramente potente.

Terza sera di fila da Terracotta. La mia playlist India 2022 si sta riempiendo a furia di shazamare tutte le canzoni allegre di questo Cafè. Stasera sono tornata da sola, è l’ultima sera in città e anche se sono stanca morta, ho fame e non potevo rinunciarvi. Qui le scarpe rimangono all’ingresso perché sul pavimento c’è un fine strato di moquette, sul quale giaciono indisturbati decine di cuscini e piccoli tavolini bassi. Si mangia seduti per terra, cosa che non concilia assolutamente la digestione, ma certamente il sonno. Questo Cafè è frequentato da me, Shuya è uno stuolo di universitari. Varanasi ha un grandissimo polo universitario, all’interno di un campus a forma semicircolare grande quanto una città.

Mi hanno insegnato a riconoscere gli universitari, qui, per come si vestono: europeggianti. Jeans, top, gambe all’aria, spalle scoperte.

Stasera, dopo la sessione in bagno di stamattina, sono ancora alla ricerca di cibo sicuro e leggero. Ordino un’omelette con le patate, due fette di roti. Il gruppo di stasera è affiatato e danzante, ammazza l’attesa trasformando il bar in una discoteca. Un ragazzo in particolare, è un ballerino nato e non manca mai di coinvolgere gli amici. Non riesco a stare ferma ed è un’attimo, una ragazza mi invita e non me lo faccio ripetere due volte.

Canzoni di cui non riconosco le parole, ma apprezzo le melorie, video, foto, trasciniamo anche un altro gruppo, una ragazza che festeggia il suo compleanno ed anche i camerieri.

Una volta abbassata la musica ci presentiamo, alcuni sono studenti, altri sono amici in visita, altri ancora locali. Una ragazza, Ana, non si lascia convincere a ballare e continua a gustarsi il suo piatto di pasta speziato. Mi ispira subito simpatia. Saltando i convenevoli, come spesso succede qui, scopro che anche stasera mi parlerà delle caste qualcuno che appartiene ad una casta alta. Ana è nata in una famiglia di una casta alta, in Nepal. Il suo fidanzato è induista anche lui, ma indiano e di una casta più bassa e la loro reazione sembra non aver alcuna carta in regola per sopravvivere, contro il volere dei genitori. Ma nei sembra proprio una guerriera e qualcosa mi dice che non mollerà il colpo. Glielo auguro, dopo aver fatto una foro per ricordo e prima di salutarci fino alla prossima volta che la vita deciderà di farci incontrare.

Saluto lei, i suoi amici, gli altri studenti ed anche i camerieri, che mi hanno coccolata per tutte queste sere. Con la mia schiscetta della colazione tra le mani mi lascio prendere dalla malinconia. Perché me ne vado già? Non potevo restare qualche giorno in più? Mi sono ambientata adesso, non ho bisogno di maps per tornare a casa, mi sento a mio agio ad Assi Ghat anche da sola in piena notte, i camerieri mi chiamano per nome. Perché me ne vado? Mi torna in mente la Colombia, Santa Marta, la voglia di mandare a quel paese due mesi di viaggio e restare con Andres, Majo e Jaime a dondolarci sull’amaca e mangiare patacones per sempre. Mi torna in mente l’email che avevo mandato all’università locale per capire se avrei potuto creare degli accordi con la Bicocca e tornare lì a scrivere la tesi. Perché non sono rimasta? Quante cose non avrei vissuto restando e quante ne sono persa andandomene?

“Dovresti andare al burning Ghat, li c’è la vera Varanasi”. È la mia ultima sera qui e sono tornata, ancora una volta, ad Assi Ghat. Ho avuto due minuti di solitudine finché un ragazzo si è accomodato accanto a me e mi ha attaccato bottone. La gentilezza a volte sfocia in eccessiva curiosità e diventa invadente, ma basta chiedere un attimo di tranquillità e ogni richiesta viene rispettata.

Sodanchu ha 19 anni, ha lavorato da terracotta 10 giorni per imparare il mestiere e poi ha aperto il suo locale, 2 anni fa. Durante il covid è mancato suo zio e gli spostamenti erano interdetti, è dovuto andare lui al burning ghat per la sua cremazione. Ne parla con la voce tremolante, dice che sa che fa parte del ciclo della vita questa cosa, la morte, ma non vorrebbe doverlo fare più. Un signore accanto a lui alza la voce, lo redarguisce. Lo capisco dal tono, ma non riesco a comprendere una sola parola, mi traduce lui, quando il signore in questione si allontana “mi ha detto che dovrei parlare delle cose belle dell’India, non di quelle brutte. Gli ho detto che ha ragione e mi sono scusato”. “Non credo abbia ragione”, replico. “Lui è più anziano, quindi ha ragione, va bene così”. Mi risponde. Il rispetto cieco.

Mi porta a fare un giro nel campus, a vedere il nuovo tempio di Shiva, mentre fuma una sigaretta, guida e mi mostra video del suo locale, dicendomi che sembro sua madre quando gli chiedo di stare attento alla strada. Sua madre è medico, suo papà li ha lasciati tempo fa, la sorella studia all’università. Gli chiedo se la mamma sa che lui fuma, mi dice che è onesto con lei, che ogni tanto questo gli costa un po’ di sberle, “ogni cosa ha il suo prezzo”.

Mi riaccompagna a casa, prima che crolli, ma non prima di sentire inaspettatamente sulla mia caviglia un liquido viscido. Un sacchetto della spazzatura. Dal cielo. Ok dai, forse è ora di andare.

10/08/2022

Santosh, il gestore della guest house dove dormo, arriva, saluta prima l’elefante e poi me.

“Andiamo!”

Non avevo capito che andiamo significasse subito, anche se era ancora al telefono, esito. Oggi il clima è mite, che bello. Cielo nuvoloso e venticello. Giriamo l’angolo e siamo sulla via principale, che parallela al Gange percorre tutto il centro città, se di centro si può parlare.

Vedo uomini fare la toeletta del mattino, barba, orecchie, chi legge il giornale, chi cuce materassi, chi vende verdura. Andiamo a fare shopping per Sara, alcuni articoli specifici: una dilruba, uno strumento a corde interamente fatto a mano, una diya dorata, un recipiente che ho visto anche durante la punja, tra gli elementi della cerimonia. Quante cose da studiare e scoprire, quanti nomi.

L’attesa. Guardando l’acqua scorrere. L’attesa, dopo aver ordinato una bottiglia d’acqua. L’attesa. La pazienza nel movimento. È un luogo di contrasti. Sono in un Cafè molto europeggiante, si chiama Monalisa e su una sua parete campeggia un quadro della Gioconda con il sari. Ho visto un croissant e non ho potuto resistere. Era in vetrina, già pronto, ma sto comunque attendendo da una decina di minuti. Mi diverte provare prodotti non locali in versione locale. La pizza indiana, il croissant indiano. È sorprendente per le papille gustative avere un’aspettativa di un certo tipo nei confronti di un alimento e, nonostante la forma famigliare, trovare un sapore totalmente diverso sulla lingua.

Al tavolo accanto un gruppo di spagnoli, chiacchierone e rumoroso, come noi. Ho già incrociato qualcuno di loro in questi giorni e ci salutiamo, come vecchi amici del liceo che hanno poco a che spartire, ma si riconoscono.

Perché ci sono così pochi turisti non indiani in questo periodo che si contano sulle dita della mano e si conoscono tutti molto rapidamente. L’occhio cade inevitabilmente su questo essere che ha delle sembianze più famigliari alle nostre e ci lasciamo trascinare dall’apparenza, che porta istintivamente con se fiducia. Rotta la barriera dell’apparenza, trovo maggiore sintonia con ragazzi e ragazze indiane che non con i turisti. È così il pregiudizio, gioca brutti scherzi.

Il croissant si difende. È una medialunas gigante. Torno a Benares, questo angolo d’Europa mi ha rifocillata abbastanza.

Mi concedo un attimo di shopping anche per me: da quando ho messo piede in India ho sbavato davanti ad ogni Sari, sognandone uno. Torno dallo zio di Aamir, gliel’avevo promesso, cerco un filo dorato e di non spendere più di 3000 rupie. Mi sento una principessa. Ora posso andare a salutare Shuya, il Gange e partire.

Vento che riempie il vestito, che annoda i capelli, che accarezza. Vento che risuona, insieme alle onde. La natura che torna a farsi sentire, che riesce a sovrastare i rumori dell’uomo.

L’acqua. La fede. Quel mistero profondo.

La vita lungo il Gange scorre con un ritmo diverso. Segue gli orari del sole e si distacca profondamente dal caos della città. La vita lungo il Gange è lenta, ma mai silenziosa. La vita lungo il Gange è una storia, di inizio e fine. Uno spettacolo dal quale non riesco a staccare gli occhi.

Sono arrivata a Varanasi 4 giorni fa e, come accaduto per Mumbai, ne sono rimasta scioccata. Le strettissime vie del centro che come cascate sfociano nel fiume, il livello dell’acqua troppo alto per camminarci affianco, il fiume. Il Fiume. Sono bastati un paio di giorni per trasformare la mia faccia titubante, perplessa, in un muso disteso, che si lascia andare ad occhi chiusi, sui gradini al suo cospetto.

Sono state sufficienti un paio di ore per trasformare il timore in voglia di toccarlo. E lo tocco. C’è chi fa il bagno nelle spiagge di Rosignano Solvay. Certo che lo tocco. Quante volte abbiamo mangiato senza lavarci le mani? È acqua sporca, non ci farò il bagno, ma lo tocco. Lo tocco con la mano destra, mi faccio un segno della croce, perché questa è la fede che credo di conoscere, ma perché no, mani giunte, occhi chiusi, om.

Cercherò questo momento nella memoria ogni volta che vorrò un po’ di pace.

La prossima volta niente stagione dei monsoni, pantaloni lunghi e ci vediamo sempre da Terracotta. Chissà se cambierai ancora nome, prima di rivederci, Varanasi.

Grazie, come sempre, alla tua gente. Grazie, questa volta, anche al tuo fiume. Il Fiume.

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