Orisson – Roncisvalle 17 km, 500 metri di dislivello a salire e 500 a scendere

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Tutta la gentilezza del mondo è concentrata qui. Una riserva infinita che continua ad alimentarsi, giorno dopo giorno. È una polvere magica, le persone arrivano, si riempiono le tasche, tornano a casa e la distribuiscono.

Qualcuna torna direttamente qui, a produrne di nuova ed il circolo non finisce mai.

Partenza ore 8:00 in punto punto punto la nottata è stata nuovamente tragica, penso di essermi svegliata almeno 20 volte, per poi rigirarmi su me stessa e Tornare a dormire. Alle quattro speravo che fossero già alle sette per alzarmi. Il sole ha trafitto le finestre della sala da pranzo mentre stavo per bere il primo sorso di te. Le pareti si sono tinte di arancione e così anche i visi delle persone sedute a sud-est. Dopo i primi passi mi rendo conto di avere veramente male all’anca destra. Non è un dolore insopportabile, ma è costante ad ogni passo. Può essere che il fatto che ieri avessi male al ginocchio destro, nell’ultima salita, abbia inciso sulla mia camminata al punto da gravare sull’anca. La parte più dura stamani e questo primo pezzo che stiamo già facendo, dopo questo ennesimo dislivello di circa altri 1000 m, ci sarà un’area pianeggiante e successivamente la discesa. Successivamente significa tra 10 km, cazzo.

Sono partita con Jhon, che sfoggiato fin da subito due racchette che ti invidio molto. Ho potuto portarlo in aereo data la loro natura di strumento contundente, ma avrei potuto comprarle a Saint Jean, alla partenza. Ho voluto provare senza, maledetta me.

In compenso, per ora, le scarpe sono ancora delle ciabatte. John mi ha già superata e corre a 200 m di distanza da me. Per potermi godere il panorama, invece di navigare nel silenzio dei miei pensieri, li racconto Ad alta voce al telefono, così che lui scriva. Siamo io, il suono dei due te la mia voce affaticata, la brina che evapora e gli uccellini. Quale miglior compagnia?

Ho trovato una lumaca. O forse una chiocciola? Bavosa e lunga 10cm, ma con il guscio a chiocciola sopra di lei. Era in mezzo ala strada asfaltata. Per timore che venisse schiacciata l’ho presa è spostata verso l’erba. Non appena ho toccato il suo guscio si è ritratta nella sua dimora, per proteggersi da questa invasione. Cosa fareste se qualcuno muovesse la vostra casa? Con il terremoto andiamo anche noi umani sotto al tavolo. In quell’istante, in un flash, sono tornata in terza elementare, nella scuola pubblica di Varese in cima alla salita, dopo il ristornate cinese. No, non mi ricordo come si chiamasse.

L’istituto era circondato da boschi, nei quali flora e fauna vivevano in armonia finché i marmocchi non decidevano con la loro irruenza genuina, di rompere l’incantesimo. C’erano tante lumache/chiocciole e gli studenti si dividevano in difensori della specie ed assassini. Ricordo con curioso orrore la pratica di infilare un rametto di legno dentro il guscio per recuperare il corpo ritratto dell’animale. Ovviamente quel gesto l’avrebbe perforato ed ucciso, ma i bambini del team assassini, sembravano non rendersene conto. Lo sterminio delle lumache era pratica così consueta che, nel sognare di scappare di casa – si, facevo sogni d’indipendenza da bambina – avevo immaginato di costruire, proprio nel bosco della scuola, una casa fatta di paletti di plastica del caffè, con una lumaca sul tetto. Ho ritrovato il disegno in un vecchio diario. Che piccolo ingegnere malefico.

Rido da sola, con l’affanno per questa salitina, pensando che il dolore all’anca sta forse diminuendo e che i bastoncini del caffè erano lo strumento prescelto in quanto materia prima che si trovava in abbondanza presso scuola di papà. Tutti con il loro involucro di carta, posizionati qua e là in bicchierini di plastica. Farne scorpacciata, nei miei sogni grandiosi, era un gioco da ragazzi. La mia compagna Sabrina era mia complice, ma quando le proponevo di venire a vivere con me, non era troppo convinta ed in cuor mio sapevo, già allora, che, per certe avventure c’è posto solo per 1.

L’opera non ha mai visto la luce in quanto, poco tempo dopo, i miei genitori hanno deciso di ristrutturare una casa vera, in un paese che prendeva il nome dal cognome della mia compagna Sabrina: Casale.

Come si intreccia a volte il destino.

Sto lottando così tanto con l’anca destra che ho deciso di mettere la ginocchiera sul ginocchio corrispondente, almeno in questo modo la forza impressa sul ginocchio sarà ben calibrata è qualcosa farà. La salita non sembra terminare veramente fatica, non per il fiato corto ma per questo dolore. Rallento e mi fermo qualche minuto quando vedo finalmente la croce, per la croce in cielo sterrato, ma segna anche la metà del cammino di oggi.

Dopo qualche chilometro, finalmente entriamo nel bosco posso iniziare la caccia al mio bastone. Ne trovo uno anche con l’impugnatura naturale, ma mi sembra di camminare un po’ storta, continua la caccia finché non trovo anche il secondo salvifico bastoncino. Ora posso continuare il mio percorso gravando molto meno sull’anca, con maggiore agilità e sicurezza.

Ecco, se c’è un consiglio che avrei dovuto ascoltare senza indugi è quello di i bastoncini dall’inizio.

Il ritmo è comunque lento perché dopo un’ultima estenuante salita, condivisa con i fratelli inglesi, inizia la discesa. Un infinito squat che mi fa bruciare le chiappe.

Da quando inizia la discesa mancano 4 km, che dovrebbero essere percorsi in un’oretta.

Lungo l’ultima salita una signora, accompagnata dal marito, barbuto con il cappellino del camino, stava mollando. Li ho incrociati mentre lui le diceva “you can do it”. Per motivare lei, ma, forse, più per motivare me stessa, ho gridato “of course you can do it!” Da quel momento non ho più tolto lo zaino dalle spalle fino alla fine.

Lungo ultimo tratto di strada, che ho percorso in totale solitudine, con il vento nelle orecchie e qualche rumore indecifrabile, le piante, i loro tronchi, erano pieni di muschio. Uno aveva addirittura delle squame, mi è tornato in mente mio nonno… Il papà di mio papà, non usava mai le mappe, era certamente un uomo di un’altra epoca. Gli strumenti che preferiva erano il sole, i girasoli, il muschio sulle piante. Ho qualche dubbio circa la direzione da prendere, scendere dalla macchina e controllava le piante. Abbastanza ridicola se la si immagina oggi, ma non così tanto quando eravamo ancora piccoli e debuttava il tomtom, strumento del diavolo che abbiamo subito regalato alla nonna, l’unica che l’abbia utilizzato.

Nell’ultimo, si spera, tratto di strada, incrocio una famiglia italiana. O meglio, quella che penso sia una famiglia: tre generazioni di maschi italiani: nonno, papà, figlio. Li porterò nel cuore, perché il figlio mi ha fatto capire che mancavano solo poche centinaia di metri all’arrivo. Sono i secondi italiani che vedo.

Scoprirò solo qualche manciata di minuti più tardi che in realtà sono 3 persone semplicemente di eta diverse che si sono conosciute camminando. Luciano, il più anziano, Bruno e non so ancora il nome del più giovane.

Non sono mai stata più felice di sentire il rumore di una moto. Mancano 500 m, da qualche chilometro ha iniziato a farsi sentire anche il ginocchio sinistro, la mia pianta del piede sta chiedendo pietà, l’unica cosa che non molla nel mio corpo e il sorriso. Grazie al cielo davanti a me vedo l’ostello. Si cazzo. Anche queste tappe ce la siamo portata a casa, le ginocchia non lo so.

In coda per entrare in questo Albergue stupendo e gigante, conosco Bruno e Luciano, mentre chiacchiero con mezza fila usando tutte le lingue del mio repertorio. Da ieri sera sono diventata l’interprete e saltello da una parte all’altra cambiando voce e vocabolario a piacere. Non sono mai stata così contenta di aver imparato tutte queste lingue. Poter capire, comprendere, ascoltare e parlare con tutti, ma non solo, aiutare le persone a comunicare tra loro, è un tesoro inestimabile. E pensare che in quinta liceo se c’erano due indirizzi che avevo escluso dalle scelte universitarie erano medicina, perché serve una vocazione, e lingue, perché pensavo di non esser portata. Quanti assi abbiamo nella manica, se ci scaviamo davvero bene?

Ho appena scelto di spendere 4€ per la lavatrice, invece che lavare a mano i vestiti con il rischio che non asciughino entro sera. Grande investimento, peccato che sia rimasta con una t shirt, mutande e pantaloncino, non ho neanche un reggiseno per gestire la situazione. Mi sdraio per la prossima mezz’ora, con i piedi all’insù, per riattivare la circolazione. Poi andrò a riempirli di vasellina ed infine a visitare il paesello, nella speranza di trovare una messa per celebrare la Pasqua come si deve.

Forse devo ripararmi da questo vento di aprile, altrimenti mi prendo un raffreddore che già sento la nonna.

One thought on “Orisson – Roncisvalle 17 km, 500 metri di dislivello a salire e 500 a scendere”

  1. Ciao Doralice sono Andrea……Degiovanni. Il nome non ti dirà nulla ma ho insegnato diversi anni al Canina!!!!!!!
    Mi ricordo benissimo l’aneddoto del Bosio: “per trovare la strada lui guarda il muschio sugli alberi!!!!!!”
    Buen camino

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