00:23, dormono tutti. Marghe è vicino a me e nel dormi veglia è stata in grado di chiedermi se fosse tutto ok. Ho mugugnato. Ho chiuso gli occhi e respirato. Davanti a me a rallentatore sono passate tutte le persone che ho incrociato in questo cammino, lentamente, come se avessi scattato una foto con le mani ad ognuno di loro.
Sento una goccia muoversi dall’occhio verso il cuscino ed una voragine aprirsi vicino alla bocca dello stomaco. La riconosco. È durata qualche settimana a giugno 2016, prima che prendessi l’aereo per tornare in Italia da Siviglia. Si chiama ansia.
I cocktail di emozioni mi fanno venire voglia di vomitare.
Succede in momenti precisi e puntualmente: esame di maturità, Erasmus, pre partenza per l’Argentina, oggi.
Era abbastanza ovvio, questo viaggio è stato come un breve Erasmus senza università.
Arrivi da solo, aperto e predisposto alla conoscenza, vieni investito dalla benevolenza di altre persone che sono arrivate con lo stesso stato d’animo.
Cammini e continui a conoscerne sempre di nuove. Si presentano, non parlano la tua lingua, riesci comunque a comunicare. Qualcuna inizi a vederla spesso: frequenta i tuoi stessi bar, ha il tuo stesso ritmo. Con qualcuno stringi una relazione diversa, si forma un gruppo. Qualcun altro spunta dopo km e km senza che tu l’abbia mai visto. Ma dove sei stato fino ad ora?
Proprio come in Erasmus, ci si lascia toccare da tante anime. Proprio come in Erasmus si sa che, la maggior parte di quelle anime, non le rivedrai più. Sfioreranno la tua vita lasciando un segno più o meno indelebile e poi si allontaneranno. Resterà il fantasma di una vicinanza grazie ai social media, ma sarà solo un fantasma. Nulla sarà più come prima. Potrai tornare nella tua città Erasmus e stare bene di nuovo, potrai rifare il cammino e vivere nuove esilaranti emozioni, ma non sarà mai più così: mai più con loro, mai più con questa te.
Come ogni Erasmus che si rispetti, ieri c’è stata la mia despedita, solo parzialmente organizzata. Un tavolo con 4 persone sono presto diventati 4 tavoli con 30. Ogni persona che ho salutato, anche chi ho conosciuto solo oggi, mi ha ringraziata e riempita di complimenti. A quanto pare sono una persona solare, positiva, incredibile, magnetica. Essere ringraziata per quello che sono, che gli altri riconoscono in me o che queste persone, in questo momento, sono riuscite a tirare fuori da me, è stata la cosa più commovente di tutte. Non per ego, ma perché l’idea di aver toccato il cuore di così tante persone ed aver lasciato un’impronta solare, positiva, incredibile o magnetica, mi commuove.
Mi hanno chiesto cosa farò domani. Spero di non vomitare.
La città è vuota e silenziosa, il sole illumina già le rocce color mattone alle sue spalle. Sarà una bella giornata. Il cielo sereno, con qualche nuvola leggera, il sole già caldo sole 8 di mattina. Non c’è nessun bar aperto e non potremo concederci un’ultima colazione assieme. Il cinguettio degli uccellini che non ci ha mai abbandonato, il suono del fiume che attraversa anche questo paesino, il rumore costante di un trapano, lo zampettare di un cane, il mio tirare su con il naso. Ci salutiamo nella stessa piazza in cui ieri abbiamo riso, bevuto, in cui ho salutato altre anime buone, meno importanti di loro. Ci salutiamo con gli occhi rossi, gonfi, stanchi.
Nulla di troppo lungo, non si può, non cambia niente.
Li guardo allontanarsi, seguendo le frecce gialle, fin dietro la grande chiesa in mattoni. Lo zaino è ormai diventato così leggero che posso tenerlo su una spalla sola. Passo dopo passo diventano sempre più piccoli, macchie ancora distinte dai colori che indossano, ma sempre più difficilmente riconoscibili, se non dalla loro posizione: in ultima posizione Marghe con le sue racchettine, a ritmo lento, si ferma per sistemare il tutore al ginocchio e perde subito terreno. Di fronte a lei Alex, il peso del cuore un po’ ammaccato oggi lo costringe alla seconda posizione. Tra poco tirerà fuori le cuffie, chiederà se è un problema se cambia ritmo ed inizierà a tarellare. In prima posizione, mani in tasca così da poter cadere con stile, Pippi gambe lunghe, diventerà l’ultimo della fila a furia di fermarsi a fare video, riacchiappando Marghe, perderà ulteriore terreno appena vedrà una panetteria. Insomma, alla fine Marghe arriverà per prima. Del resto è sua la corona ora, è lei il boss, è lei che porterà avanti femminismo e squadra, lei che difenderà l’emancipazione del nostro genere ed il pianeta. La mia bella, gentile, sveglia, sorridente, Marghe. “Non ho mai visto un* francese simpatic* come te, c’è qualcosa di strano” le ha detto Alex. Non che Alex conosca tanti francesi, ma io più di lui e posso confermare. Ho una nuova amica a Parigi, ed è una forza della natura.
Il bus arriva puntuale, l’autista saluta tutte le signore anziane con un “hola guapa” che mette di buon umore anche i sedili. È questo il mio “buen camino” di oggi.
Mi aspettano 20’ fino a Logroño, ho poi 30’ per recuperare la borsa di Jonathan nell’ostello di ieri sera, andare alla posta, spedire il pacco, sperando che costi meno di 150€, andare in stazione e prendere il BlaBlaCar che mi porterà in aeroporto. Ad aspettarmi ci sarà Beatriz, che mi ha già accennato porterà anche un italiano che prende l’aereo con me. Non mi sono scambiata il numero con padre e figlio Bergamaschi incontrati alle porte di Logroño, ma qualcosa mi dice che sono loro.
Mentre il sole si alza ed inizia a scaldare i fili d’erba luccicanti, che si muovono grazie all’evaporazione della leggera brina poggiata su di loro, chiudo gli occhi e ripenso ai miei passi, agli occhi che hanno incontrato i miei, alle mani che hanno toccato le mie, ai sorrisi che hanno scaldato il mio cuore.
Nei miei ricordi c’è il gestore dell’ostello di Bordeaux, che mi ha consigliato il primo croissant della settimana. C’è Patrizia, l’italiana che mi ha preparato il primo minestrone, a Saint Jean, lei che dopo il cammino è tornata qui ad aprire un hotel ed ora si è lanciata sulla ristorazione, ma vorrebbe tornare a casa. C’è Gaetano, il primo Pellegrino che ho incrociato, abbiamo iniziato a parlare spagnolo, anche se mi ero accorta che fosse italiano anche solo dal portamento. E poi solo gli italiani vestono Montura. Ieri sera, era a cena nello stesso ristorante con menù del pellegrino dove abbiamo mangiato noi. “Come va?” “Da Dio!”. A volte va “benissimo”, altre “alla grande” sono le sue risposte, un’allegria contagiosa. Lui di cammini ne ha fatti una decina, mi consiglia, se posso, di farlo intero la prossima volta e certamente di continuare da Najera quando riprenderò. Gli ho ricordato che è stato il primo Pellegrino che ho incrociato lungo il mio cammino. Mi ha chiesto di aggiungerlo su Facebook e prima di andare a dormire mi ha scritto “Piacere di averti conosciuta. Credo tu sia moto positiva.”
Nei miei ricordi c’è anche il secondo Pellegrino, un ragazzo altissimo che lavora nella ristorazione, Lituano, trasferito in Spagna, in Norvegia e poi tornato in Spagna. Mi fa sorridere che anche lui si fosse classificato come “sfigato con le donne”, come se chiunque abbia avuto una delusione amorosa la categorizzi subito come sfiga. Spero stia trovando risposte, perché, dopo la prima notte a Orisson, non l’ho più visto.
E poi arrivano tutti gli abitanti di Orisson: la cameriera Canadese che non parlava inglese, le filles, un gruppetto di 6 amiche francesi che è stato al passo con noi quasi fino alla fine, ricordo che anche loro avrebbero lasciato più o meno dopo 10 giorni come me. Una coppia di una certa età, danese, che una volta ha provato a fare il cammino del nord e gli mancava così tanto quello francese che hanno preso un autobus e si sono fatti portare a Saint Jean. Nella strada tra Roncisvalle e Zubiri lei era molto in difficoltà con un ginocchio e le ho lasciato il mio tutore, la sua gratitudine è stata come sempre esagerata. Non li ho più visti dopo quella tappa. Fratello e sorella, francesi, incrociati troppo velocemente solo ad Orisson.
Nei miei ricordi ci sono Avni e sua mamma, Canadesi, Avni è psicologa, dolce e dai tratti un po’ latini. La mamma farà tutto il cammino mentre lei si fermerà per andare a Madrid qualche giorno e poi tornare in Canada. Ci siamo trovate nello stesso hostel orrido a Los Arcos, la felicità è stata rumorosa: non ci eravamo scambiate il numero e pensavamo di non rivederci più. Un lungo abbraccio preventivo è stata una buona idea, perché non abbiamo più avuto modo di trovarci.
E poi ci sono i fratelli carrello, i due fenomeni che si sono fatti spedire dall’Australia quello che io chiamato “Devil’s trick”, un aggeggio con le rotelle per tirare gli zaini. Anche loro dopo Zubiri non sono più riuscita ad incontrarli.
E poi ci sono Mabel e suo papà, con cui siamo rimasti così in contatto che, nonostante avesse finito i suoi brevi 3 giorni di cammino, a Pamplona è venuta con noi a fare il city tour. Jhon, il mio vicino di cena irlandese, al suo 6º cammino, impossibile vederlo triste, impossibile non lasciarsi contagiare dal suo entusiasmo. Ci siamo salutati alla mia despedida, ma prima di quel momento, nello stop a Navarrete, di fronte ad una chiesa maestosa e magistrale, ci siamo riempiti di foto preventivamente. Dublino è vicina.
Tampa un po’ meno, nei miei ricordi ci sono anche Natalia e suo marito Jessy, lei colombiana e lui della Florida, già in pensione a 55 anni grazie a tanti anni da militare. Quasi dimenticavo la coppia di Francesi che ha iniziato il cammino Francese ancora in Francia, ancora prima di Saint Jean, con cui abbiamo anche cenato a Roncisvalle. Anche loro non ricordo di averlo rivisti dopo Zubiri. Che strage quella tappa, ha lasciato indietro tutti i meno allenati. E poi c’è Jonathan, che non ha bisogno di presentazioni. Che maledirò tra poco, se non riuscirò a spedire la sua borsetta.
E poi c’è Roncisvalle. I 3 italiani che pensavo fossero nonno, padre e figlio, il “figlio” che non ho mai conosciuto davvero perché non si è fermato a Roncisvalle, il padre Bruno ed il nonno Luciano, che non ho più rivisto dopo quella notte. Un altro gruppetto misto di italiani, da Caserta, dall’umbria e da Parma.
Interrompo l’elenco per correre all’ostello, arrivo alle 9 in punto, proprio insieme alla receptionist che mi dà subito la borsa. Corro alla posta più vicina: 4 minuti. Prendo il biglietto… 10 minuti. Sono già le 9.15, alle 9.30 dovrei essere in stazione. La signora che gestisce la mia pratica mette e toglie gli occhiali per vedere meglio da vicino. Usa un dito solo sulla testiera, ma è molto dolce. Non voglio metterle fretta, per non agitarla, ma alle 9.30 mi chiama Beatriz, la ragazza del BlaBlaCar con cui negozio altri 10 minuti, dicendo che avevo già finito. È troppo tardi, non posso fare a meno che mettere fretta alla signora che – come prevedibile – entra nel panico, sottolinea il numero di spedizione con un pennarello indelebile rosso, invece che con l’evidenziatore, cancellandolo completamente. Fotocopia l’etichetta di spedizione ticchettando sulla stampante, mi da tutti i fogli, anche quelli che dovrebbe tenere lei e mi saluta. Corro nella piazza antistante dove dovrebbero esserci dei taxi. Non ce ne sono. Ma c’è Ignacio, la mano de dios, un signore minuto con il suo furgoncino che sta facendo le consegne del giorno che decide di dedicarmi questi 4 minuti della sua vita. Non ha mai fatto il cammino, ma l’ha programmato per il prossimo anno, partirà con i suoi amici. Invio la posizione a Beatriz, con il timore che parta davvero. Arrivo. C’è. È incazzatissima. Grazie Ignacio. Fino a qui, tutto bene.
Il tragitto fino a Vitoria, fantomatica città da cui prenderò il volo, dura 1 oretta. Ora che mi sono tranquillizzata perché sono su quest’auto, posso riprendere a navigare nei ricordi, ma non prima di aver controllato la distanza tra il punto in cui ci lascerà e l’aeroporto. Con il mio ritardo arriveremo poco prima delle 11 alle porte della città. Il volo parte alle 12.30 e chiude le porte alle 12.05.
Dov’eravamo rimasti?
Ah, alla cena a Roncisvalle. C’era questo gruppetto misto di italiani, il ragazzo più giovane, di Parma, ha 23 anni, studia a Milano, ma non ci ha mai vissuto. Mi fissa insistentemente mentre parlo con i francesi alla mia sinistra, vorrebbe imparare più lingue, gli consiglio di andare in Erasmus, ma non lo vedo convinto. Insisto.
Nei miei ricordi c’è anche la guida di Roncisvalle, un accento basco strettissimo ed un sorriso larghissimo. Gli hoteleros olandesi che gestiscono l’albergue. Tony, l’ingegnere irlandese con il viso dolce, seppur squadrato, che cammina al 10% in meno delle sue capacità per conservare energia. È lui che spuntava dal piano di sopra del letto a castello, ridendo, mentre iniziava la conoscenza con i miei compagni di viaggio. Resterà con noi fino alla fine. Sarà con noi anche nel momento in cui Marghe si unirà al clan. Ed ancora Santiago, il chino gestore dell’ostello di Zubiri. Il signore Brasiliano, che la sera prima era arrivato alle 10 a Roncisvalle, nel buio pesto, riportandoci i dettagli della bufera di neve che aveva chiuso Orisson. Possibile che la sera prima non ci fosse una nuvola ed il giorno dopo una bufera di neve? È la stessa persona che mi ha raccontato di un defunto sul cammino. Io non avevo nemmeno lontanamente pensato a questa eventualità. E forse questo argomento merita una parentesi.
Ci sono persone che muoiono sul cammino. Muoiono letteralmente di fatica. Lungo il tragitto, ogni tanto, si incontra qualche targa commemorativa ed è straziante, pensare che qualcuno, mentre percorreva i tuoi stessi passi, carico di emozioni, non abbia avuto la possibilità di continuare a viverle. Non l’ho nemmeno presa in considerazione questa possibilità, non era un rischio esistente per me. Avevo paura per le ginocchia, non per la vita. Va bene, ho 26 anni, forse è giusto così, ma ieri, divagando con Marghe, mi ha fatto presente che sua mamma era molto preoccupata perché la sua bimba sarebbe partita da sola per un lungo viaggio. Aveva paura che venisse violentata, maltrattata. Anche questo pensiero non mi ha sfiorata nemmeno lontanamente. Un rischio reale, ma distante dal portfolio dei rischi che la mia mente ha filtrato. Mente ne parlavamo mi sono sentita un po’ imprudente, innocente, esageratamente fiduciosa nel prossimo. Eppure, questo è il mondo che vorrei: senza paura.
Nei miei ricordi c’è un nuovo ennesimo gruppo di italiani: mamma e figlio sardi, Alma, Pugliese trapiantata a Firenze, Franco, Brianzolo velista e Luigi, il medico maleducato.
Nei miei ricordi c’è Linda, la coppia scozzese con l’accento più difficile della storia, Jonathan 2, il nonno di Santiago.
Nei miei ricordi ci sono papà e figlio, Roberto e Michele, Bergamaschi, che prenderanno il volo con me. Da ieri nei miei ricordi c’è anche Charles, un ragazzo francese conosciuto al fotofinish, che ha lavorato anni nella ristorazione, si è licenziato, separato ed ora cammina. Jacob, un ragazzo tedesco dai capelli platino, con cui ho scambiato davvero poche parole, Flo, la più matta di tutte, una signora di una 50ina d’anni che mentre era in gita con ex marito e figlio, ha visto un paio di pellegrini ed ha pensato “ma sai che c’è? Mò lo rifaccio sto cammino”. È andata al decathlon ed ha comprato il minimo indispensabile e si è messa a saltellare insieme a noi. Con loro anche un ragazzo italiano, Ider, che ha iniziato il cammino correndo per poi spaccarsi e finirlo senza zaino e zoppicando. Lui, suo fratello e sua sorella, hanno da poco preso le redini dell’azienda di famiglia, con tutto il coraggio e la responsabilità che ne consegue.
Siamo arrivati a Vitoria, il tram ci è partito da davanti al naso e non c’è un taxi nemmeno a chiamarlo. La nostra autista, già in ritardo a causa del mio ritardo, cede e sceglie di portarci fino in aeroporto. 20 minuti ad andare, 20 a tornare. Chissà cosa penserà il suo datore di lavoro. Lavora in università, magari insegna, magari c’è una classe intera che la sta maledicendo, mentre lei maledice noi e noi benediciamo lei.
Arriviamo in aeroporto con 30’ di anticipo rispetto alla chiusura delle porte. Sembra che il volo sia in ritardo. Ci sono solo 3 gate, le mascherine non sono ben indossate e non c’è nemmeno un bar per mangiare. Lascio cadere dalla macchinetta un pacchettino di pepas ed una bottiglia d’acqua. Sono le stesse che ci sono nelle macchinette dell’ufficio, così iniziò a riabituarmi.
Fuori dalla porta scorrevole del gate 1 brilla un sole che sembra afoso, a causa della foschia. In realtà ci sono 12º. Non vedo ancora papà e figlio, posso continuare a scrivere ancora per un po’.
Il team mi aggiorna, sono riusciti a fare colazione, stanno sfoggiando i pantaloni corti, camminano ormai da 4 ore e mezza, saranno quasi arrivati a destinazione, oggi hanno solo 20 km da fare. “Solo” guarda come si relativizza tutto nella vita.
Ed eccomi qui, zaino in spalla, ginocchio destro capriccioso, pronta ad imbarcarmi su un volo che mi permetterà di percorrere 1000km in un’oretta. Eccomi qui, a lasciare il mio Erasmus dopo il primo semestre, senza nemmeno aver provato a prolungarlo, come una persona matura, come una persona cosciente. Eccomi qui, con il sole i fronte, ai piedi della scaletta dell’aereo. Eccomi qui, con la mia divisa da sera, indossata di giorno. Eccomi qui, dopo aver vissuto una delle esperienze più belle della mia vita, con le tasche piene di gentilezza da portare a casa. Eccomi qui, grata, felice e pronta a ripartire domani.
Che fantastica storia la vita.
Buen camino, de la vida.
P.s. Uscita d’emergenza, posto finestrino. La benedizione non è finita.