Una vita a cucchiaiate

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Mi ero imposta, con la solita clemenza che mi concedo quando ho un obiettivo – nessuna – di non leggere nè guardare nulla che non fosse in lingua francese.

Poi ho sognato in questa lingua nuova, mi è capitato di chiacchierare con disinvoltura, addirittura di parlare senza avere in precedenza tagliato a dadini, frullato ed impiattato le parole che componevano la frase. E mi sono stupita. Me ne sono resa conto, qualcosa ha fatto click ed ho sentito il rumore, ero contenta e soddisfatta di questo punto di arrivo che era un nuovo punto di partenza.

Mi meritavo un premio, uno di quelli che possono darsi solo gli ossessivi cagacazzo del XXIº che quando pensano “ho perso tempo”, cancellano con la gomma anche il pensiero e cambiano la terminologia – perché le parole sono importanti – in “investire il tempo”. Insomma, mi sono concessa una serie in italiano. O forse dovrei dire La serie? Quella che è riuscita a monopolizzare le pubblicazioni di tutti i social: da Linkedin a Netlog, che è stato riaperto apposta per dire a Zero “bravo!”.

Insomma.

È finito il penultimo episodio di Strappare lungo i bordi e mi torna in mente una piccola Doralice con l’mp3 rosso che gira per Casale canticchiando Mary dei Gemelli Diversi. Nonostante sia già mezzanotte, nonostante anche questa sera mi fossi ripromessa di andare a dormire ad un orario dignitoso, nonostante gli occhi inizino a bruciare, devo per forza cliccare su “elimina e riproduci il prossimo episodio”. Ed astenermi dal toccare il bottone “salta intro” perché è l’ultimo episodio e voglio godermi anche la sigla.

Era iniziato tutto molto bene. Nel frigo c’erano gli avanzi della cena di ieri sera che sono diventati una gustosa insalata, in casa non c’era nessuno e la pausa pranzo non vedeva l’ora di essere accompagnata da un cartone animato. Dopo il primo episodio ero emozionata. Ho fatto un bel video allo schermo, mentre Ron tornava a riecheggiarmi nelle orecchie dopo anni di quarantena dentro ai CD sotto il sedile in macchina di mia madre. Dicevo, ho fatto un bel video allo schermo mentre Calcare ci rammentava quanto tempo ci lasciavamo la possibilità di perdere a 17 anni. Nell’età del Mc Donald una volta a settimana e di Chrismukkah. Già, perché oggi era pure Hanukka e mi sono svegliata pensando che la nostra generazione è più inclusiva di quelle che l’hanno preceduta perché è stata educata a botte di OC, adozioni di pargoli attaccabrighe in ville da sogno e commistioni di feste religiose. 

Beh, a dire il vero a 17 anni Quella-là-che investe-il-tempo aveva già dedicato un numero limitato – seppur lungo – di mesi al crogiolamento esistenziale davanti al bivio dal titolo “passione o lavoro”. Il che significa, visto che non ho dei fumetti che vi possano aiutare a capire cosa ci si nella mia testa, che ero di fronte alla mia scelta universitaria. Decisione, che come in ogni momento di empasse della mia vita, mi sembrava definitiva ed in grado di condizionare il futuro, quello del mio angolo di prato ed ovviamente anche quello di tutti i fili d’erba del Monferrato. 

Ovviamente la scelta è stata quella più naturale, razionale, quasi facile o se vogliamo definirla come me la farebbe definire l’armadillo denoartri: codarda. Però forse Alice mi direbbe che so troppo dura con me stessa e allora niente. Ho scelto l’altra cosa, quella che mi avrebbe permesso di seguire a menadito i bordi disegnati da chissà chi. Insomma, abbiamo detto che le parole sono importanti, se una la definisco ancora oggi “una passione” e l’altra “il lavoro”, è chiaro che nella scatola dei chissà-come-sarebbe-la-mia-vita-se-avessi campeggia una facoltà letteraria che mi avrebbe permesso di accedere ad una carriera giornalistica. 

Ma sono diventata bravissima a raccontare a tutti i colloqui i dettagli del freddo che fa, perché quello che conta è lo storytelling e non dovrebbe essere faticoso per chi aveva (ed un po’ conserva ancora) ambizioni da scrittrice. Ad ogni colloquio riesco a vendere che con la specialistica in marketing mi sono riavvicinata alla mia parte creativa, unendo passione e lavoro. Peccato che appena ho lavorato per un attimo in comunicazione ho capito davvero che i miei sospetti erano tutti fondati: io a farmi dire da qualcuno cosa devo scrivere sarei morta di fame. Semplicemente perché non avrei accettato di farlo. 

E quindi niente, i bordi si sono rivelati giusti fino a qui. Fino a quando non prendo un libro della Fallaci dalla libreria e mi vien voglia di partire per la frontiera e fare davvero quel lavoro là, ma non a parlare di shampoo, bensì di altri liquidi più grumosi e densi.

A parte questo, dopo il primo episodio ero così gasata dalla scelta intrapresa che ho fatto il video sopracitato, l’ho pubblicato su Instagram rendendo chiaro a chiunque ci sia nella mia genia che stavo facendo anche io il grande passo. Nessuno interessato, ovviamente, così ho anche scritto alla prima persona con cui ero in contatto su whatsapp quando fossi già fan della serie. “Comunque già presa dal primo episodio”. Nemmeno Ubaldo, la vittima in questione, è risultato molto interessato, l’ho dedotto dalla risposta con un emoji del fuoco. Ma forse questo è un costrutto della mia mente, magari quando qualcuno manda un emoji la pondera, si impegna a cercarla perché non sa come sia classificata con lo shortcut, la trova e mette tutto se stesso in quel pigiamento di schermo. Forse faccio di una parte il tutto. Anzi, della mia parte un tutto, perché io quando mando un messaggio contenta solo un’emoji è perché sto chiudendo una conversazione, la porta, er palazzo, perché non c’ho un cazzo da dirti nzomma.

Poi Teams ha iniziato a suonare ad intermittenza, come la sveglia del protagonista un po’ sordo del primo film in francese che ho visto, per rammentarmi che era ora di chiudere il tablet e cambiare schermo.

Non prima di soffermarmi sul fatto che siamo sempre uguali, noi umani. Che abbiamo solo innovato i modi per intrattenerci e per distrarci, che ne abbiamo qualcuno nuovo che è solo l’evoluzione di qualcuno vecchio, accompagnato da qualcuno vecchio duro a morire. Lèggiamo, mettiamo i dischi, suoniamo, cantiamo, ascoltiamo la radio, ma c’è anche Netflix, ci sono i podcast, la play, i viaggi lontano. Ecco forse qualche anno fa la pausa pranzo dello smartworker non esisteva, ma mi madre non si faceva un pranzo senza tg + Beautiful + Centovetrine + pennichella davanti a uomini e donne. È cambiata la dimensione dello schermo, la quantità della scelta, poco il contenuto. Di certo non è cambiata mia madre che quando le dici “svegliati, sono le 4”, risponde “non stavo dormendo, riposavo gli occhi”. A mà che c’hai gli occhi che russano?

Ho fatto l’ultima lezione del corso di B1 di francese, che coincideva con la prima dei nuovi arrivati e sono tornata a casa ancora più gasata di prima. Ho motivato la mia fuga al professore, “c’è una serie spaziale che vorrei finire”. Non ho detto spaziale, quello sarà nel B2 probabilmente, ma “fou”, che volendo potrei anche dire al contrario “ouf” perché qui sono bambini speciali e non hanno mai superato l’età dei primi baffetti dei compagni delle medie con i capelli scuri, o quella del frarfallino. Ma nemmeno i bref l’hanno superata quindi forse non è nulla di grave. 

Ho impiattato gli stessi ingredienti del pranzo, cambiando solo la fonte di carboidrati: perché non abbiamo più i famosi 17 anni ed non solo al Mc Donald non mettiamo più piede da decenni, ma abbiamo scoperto anche la parola caloria, dieta bilanciata e m… merda non mi viene proprio. Sarà che è una cosa cosa che non ho, che già prima della maturità, prima del bivio, avevo iniziato ad invidiare alla fidanzata di quel ragazzo con cui sono uscita perché a detta sua erano in pausa. Lei non ne era al corrente, ma questo l’ho scoperto solo quando la sua migliore amica mi ha urlato dietro di tutto e la diretta interessata si è presa le mie sentite scuse, per poi riprendersi il ciarlatano. Beh mentre pronunciavo le mie davvero sentite scuse ed inveivo leggermente sull’amica che – anche giustamente – le aveva fatto da scudo, pensavo solo “cazzo però quando vorrei il suo metabolismo”. Ecco. Metabolismo. Bastava ripensare all’emblema del metabolismo veloce per rinfrescare la memoria. Forse il problema non era tanto il metabolismo, quanto che alla fine il ciarlatano, per amore delle chiacchiere o della ragazza, a prescindere dal vociare, era rimasto con lei. Con il senno di poi, da quella posizione privilegiata con la vista su tutta la valle, posso gridare oggi: MA MENOMALE. Però allora ero imbarazzata ed un po’ incazzata con il mio culo che aveva bisogno di squat per stare su.

Dicevo, ho impiattato gli stessi ingredienti, con un cereale diverso, già deliziata dall’idea che: 1: avrei continuato la serie, 2: avevo ritrovato nella borsa un macaron comprato sabato e non mangiato, che avrebbe da lì a poco accompagnato la mia tisana post cena. 

Così, tra una forchettata e l’altra, sono inciampata nella scena della pizza e un po’ me stavo ad incazzà perché io quella l’avevo già vista in un altro video sempre di Zero, era riciclata e questo non me l’aspettavo. Forse anche perché mi ha fatto venire una gran voglia di pizza, una gran voglia di chiedere ad Alessia di prendere quella che vorrei assaggiare io. Una gran voglia della bufala che avrei preso pure io. Insomma indignata mi son pure lavata i denti portando in giro il tablet come na prolunga, senza guardare una scena che già conoscevo a memoria: perché la faccio ogni volta al ristornate, solo che io non sono Zero e je rompo i cojonj ar cameriere. Ma io posso, perché, anche se la ruota me la cambio da sola e vado pure in discarica a prenne la gomma di scorta a 20€, ho la gnagna. E questo significa non solo che potrei chiedere aiuto, ma che dovrei, altrimenti la profezia del gommista si avvera ed in discarica i maschietti alfa, invece di pensare alle gomme, pensano alle mie gambe e mi fanno diventare più rossa del tendone da circo – evidentemente molto seducente – che indossavo quel giorno lì, mentre una volata di vento ha deciso di alzarlo mostrandogli non solo le gambe, ma anche le mutande del mestruo che indossavo. FAN CAGARE OKKEI GUARDA DA N’ARTRA PARTE E SMETTILA D’AMMICCÀ A BUZZURRO. 

Si, m’ero proprio incazzata quella volta, non tanto per gli sbavatori della discarica quanto più per il gommista che mi aveva detto “vacci co n’omo”. Ma che davero? Me so cambiata da sola la ruota in autostrada in minigonna e stivali de pelle e mò pe prenne na rota demmerda con sta tunica der circo c’ho bisogno de n’omo? Ma poi io non c’ho bisogno de n’omo manco per… vabbè basta. M’ero incazzata più con Gerry che con i tizi della discarica ed avevo fatto bene, perché una volta che gli avevo riportato la ruota intrinsa di cafonaggine evidentemente s’era preso un virus pure lui e non si era potuto trattenere dal commentare le mie gambe. Il vestito è davvero una tenda, non fate quelli che mettono in dubbio la vittima che vi vedo. Mi sono guardata per un po’ allo specchio cercando di capire dove avessi sbagliato. Sicuramente non nella scelta del vestito. Forse nella solita mancanza di prontezza nel rispondere, perché la stangata perfetta si palesa nella mente di tutti solo qualche minuto più tardi. E tornare indietro non è mai il caso.

Sono le 2 e mezza e sono ancora qui a scrivere, perché ha ragione Carlo: non è nulla di nuovo questa serie, nulla di innovativo, sono tutti concetti semplici e di cui siamo già profondamente consci, ma vederli condensati in 1 oretta e poco più, uno in fila all’altro, vederli disegnati, incastrati, è un bagno turco. È una montagna russa. Dentro e fuori dalla sauna. Su e giù. Vero, cazzo. Non ho capito il riferimento cinematografico. Cazzo il mito della caverna. La mia maestra. Le cose nascoste nel divano. L’attaccamento all’inutule superfluo ed indispensabile. Il gelato.

Ho fermato l’episodio per scattare una foto al sacchetto del gelato mentre viene appoggiato sul sedile del passeggero. Un gesto fatto, visto, ricevuto. L’emblema della risurrezione non è la sindone, è il gelato. Dentro quella vaschetta da mezzo kilo c’è tutto l’affetto che una persona può provare per un’altra. I fiori a confronto sono un cucchiaino del gusto che assaggi e poi non prendi, ricominciando la scena della pizza. Caramelbiscotto, Fiordilatte, spotify, io ed Arabella sull’amaca sul tetto. Gli effetti collaterali del vaccino. Le cene estive. Gli amori finiti o mai iniziati, scivolati come il gelato a ferragosto. Ma non le vaschette, quelle no, quelle sono la cura. La pozione magica. L’asso nella manica.

E poi l’ultimo episodio. Non è ancora iniziato e lo stomaco si è già chiuso. Agli estremi degli occhi le lacrime iniziano a sfrigolare. E piango. Mi dispero. Ogni secondo di più. Avevo la dolcevita azzurra ed un pantalone gessato blu, quando ho ricevuto e dato un abbraccio di quelli. Un abbraccio come solo un genitore spezzato può dare un amico del proprio figlio. Un abbraccio come solo chi ha perso un amico, che questa terra avrebbe meritato di ospitare più a lungo, può dare, ad un padre che potrebbe essere il suo.

Forse l’impotenza è peggio del senso di colpa. Forse no. Alla prima ci si può anche rassegnare, il secondo è lacerante e difficilmente riducibile. 

Tranne con la terapia dell’armadillo. 

Perché aveva la voce di Mastandrea, ma sappiamo tutti che quella è la voce della nostra psicologa, che non è altro che la nostra, una volta che finiamo la terapia ed i sensi di colpa. 

È la voce che ci dice “ma che davero ce stai a pensa a giocà a poker? Meglio che namo a magnà un gelato e poi torni alla vita tua, ma cor punteruolo dell’asilo tra le mani: quello con cui puntellavi i bordi da te disegnati, su fogli di carta colorati. Mò devi vivere x2.” E magari pure “il ne faut pas pousser mémé dans les orties”. 

Perché si, c’ho l’armadillo poliglotta io. Beh? 

Grazie Zero. Ciao Cri.

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