Sono le 11.00 e nessun posto mi ha ancora convinta. Quelli che mi erano piaciuti avevano già chiuso la cucina. In ogni caso non ho capito nulla di ciò che mi hanno detto i camerieri. Mi rassegno e torno verso la stazione, lì sicuramente mi daranno qualcosa da mangiare.
Un semplice croque monsieur, che altro non è che un toast con extra formaggio sopra, è proprio quello che cercavo. Si differenzia dalla madame che ha anche l’uovo. Non esageriamo.
Ordino con un po’ di agitazione, devo dire più parole rispetto ad un semplice “bonjour”. Il cameriere sottolinea il mio imbarazzo notando che sto giocando nervosamente con la collana, segno inconfondibile di insicurezza ed ansia. Sbiascico qualche parola per scusarmi del mio francese e sul tavolo spunta un bicchiere di champagne. Primo giorno a Parigi? Champagne!
Iniziava così, una settimana fa, la mia avventura parigina. Dalla mia finestra, inaspettatamente, riconosco luminose in lontananza Notre Dame, la cupola del Pantheon e la Tour Eiffel. Quando tiro su per la prima volta le tapparelle, sono ancora lì. Il cielo si è fatto azzurro intenso e mi pento immediatamente di non aver portato il cappotto. A 6 giorni di distanza posso invece dire che probabilmente non sarà sufficiente nemmeno il piumino a proteggermi dal vento fresco di questa città.
Qui il tempo cambia velocemente, come le persone che vanno e vengono. Come le auto che non smettono di sfrecciare tra le sue vie nemmeno alle 3 di notte. Milano all’1 e mezza spegne i semafori e me la posso mangiare ai 100 all’ora, come fossi l’ultimo umano sulla terra, è mia. Parigi non dorme mai. Le sue luci la tengono sveglia alle ore più improbabili. Le persone non si stancano mai di riempire i tavolini dei bar. Dentro e fuori, sulle terrasse che in realtà sono dehor.
Il vento costante muove sempre e visibilmente le nuvole, se pensi di esser fortunato ad aver trovato una giornata di sole, stai in guardia, il meteo a Parigi è come le scale di Harry Potter. Ma non è una sensazione di sfortuna che mi trasmette questo mutamento, bensì di speranza. Non c’è giornata grigia che non possa cambiare colore e quando lo fa, dopo la pioggia, la luce che case sui tetti di zinco bagnati, avvolge la città di una luminosità nuova e calda, un’alba in mezzo alla giornata.
Ho scoperto che ai francesi piace positivizzare inconsciamente i concetti. “economico” è “pas cher”, “vicino” è “pas loin”, bene è di sovente “pas mal” e ancora “je n’aime pas” è preferito a “mi fa cagare”. Questo modo di esprimersi, ai miei occhi, rende inconsciamente ogni cosa un po’ più bella di quanto già non lo sia, perché la mette implicitamente in relazione con il suo opposto. “È economico” risulta meno potente di “non è caro”, quasi a dare la sensazione di una vittoria.
Con lo stesso spirito guardo le nuvole stamattina, con la certezza che potrebbe essere peggio e comunque tornerà il sole. Pas mal le météo aujourd’hui.
Mi piace conoscere un luogo, una cultura, mentre imparo anche la lingua locale. Nella semantica delle parole è racchiuso un modo di essere ed un modo di vivere. Da quando ho detto che sarei voluta partire per Parigi mi è stato fatto un grande in bocca al lupo, mettendomi in guardia sulla stronzaggine degli indigeni. E invece qui le persone non imparano le cose a memoria, ma por coeur. Custodiscono i ricordi nel cuore e non nella testa. Come possono essere stronzi degli umani che usano così tanto il muscolo che hanno nel petto?
Non ho ancora trovato una persona sgradevole, 7 giorni è già un periodo abbastanza ampio per poter incrociare uno stronzo in 50km, così non è stato. Sono stata solo fortunata?
Dalla mia finestra si vede la Senna. Il fiume color oliva, color bottiglia, abbraccia la città. Con un primo sguardo distratto potrebbe sembrare che la divida, ma la numerazione degli arrondissment, insieme al numero dei ponti che lo sormontano, fanno pensare a tutt’altro. Sembra il punto in cui la città si apre e ti permette di guardarle dentro. La Senna è il suo cuore pulsante, dai suoi ponti che sembrano tanti piccole cuciture che la tengono insieme, si intravedono le sue viscere.
Martedì e giovedì ho il corso di francese. In Spagna mi aveva aiutata molto ad imparare la grammatica, mentre per strada imparavo a parlare. Il corso dura 1 ora e mezza, dalle 19.30 alle 21.00, un orario perfetto per obbligarsi a smettere di lavorare almeno alle 7.
Il primo giorno arrivo in ritardo e scopro che i portoni si aprono con un codice: è paradiso degli stalker – penso.
Martedì durante prima lezione, faccio fatica, giovedì, alla seconda sono già il pagliaccio della classe. È lo spirito mediterraneo che mi porto dietro, non c’è niente da fare.
Esco dalla classe ed invece di tornare a casa deciso di esplorare un po’ la zona, nella mi mappa dei ristoranti parigini c’è un ramen discretamente vicino, mi ci butto. Supero una veloce coda ed ordino un ramen vegetariano con pollo bio extra. Suona un po’ ossimorico, ma mi ricordo l’ultima volta in cui ho mangiato carne.
Tiro fuori i compiti per martedì prossimo e cerco di studiare i passati prossimi per comporre il passè composè. La mia scodella arriva in un batter d’occhio e mi costringe ad alzare gli occhi dal quaderno. Dietro la mia testa c’è una tapezzeria piena di neko, gatti in giapponese, davanti a me una coppia che si accarezza le gambe cena con un’amica, parlando inglese. Alla mia destra tutti francesi, ma con origini giapponesi, tunisine, centro africane. I camerieri sembrano coreani ed io mi sento nel futuro. Un mondo fantastico dove l’integrazione non è un lavoro, ma uno stato dell’arte.
“Non mi sono mai sentita più piena di così”, penso, mentre un gatto entra dalla porta e si aggiunge al quadretto degno di un Monet. Che mondo è mai questo?
È passato qualche giorno, non ho più visto gatti, ma un topo al quale non ho potuto che voler bene pensando a Ratatuille. Si dice che per ogni umano che vive a Parigi ci siamo almeno 2 topi sotto le sue strade. Non stento a crederci, la sua magnificenza è un po’ decadente come quella romana, le sue strade, proprio come a Roma – per colpa del vento – sempre un po’ sporchine.
Mi sono trovata a Montmatre con Zac, un ragazzo francese con origini algerine a cui avevo chiesto ospitalità su couchsurfing. Montmatre è un luogo alquanto turistico della città, un po’ artefatto e già visto in troppi film, ma ci sono due cose del quartiere che amo immensamente: la quantità di persone di origine africana che lo popola e le scale del Sacre cœur. Le prime riescono a ribaltare l’assioma nel quale sono cresciuta, fanno vacillare il privilegio, mi mettono in una posizione di minoranza, un’emozione così inconsueta da farmi aguzzare la vista. Mani color cioccolato toccano altre mani per stendere lo smalto, toccano capelli perché il sabato è giorno di parrucco, toccano barbe, volantini, bambini. Sbircio dietro le vetrine, mentre mi faccio largo tra fiumi di persone ammassate sul marciapiede in attesa del proprio turno nei saloni di bellezza in cui vorrei entrare per un bagno d’inclusività.
E poi le scale. Quelle scale. C’è tutta l’umanità su quei gradini. Proprio davanti al Sacro Cuore, che austero protegge la città dall’alto, c’è il suo cuore pulsante. Torno bambina, torno al liceo, cambio prospettiva, mentre tutti puntano lo sguardo sui tetti in zinco che fanno da mantello a Parigi, io mi giro e guardo loro, tutti questi esseri viventi allineati e rumorosi, nella più bella delle cornici. Le lingue si mischiano insieme ai colori dei capelli, della pelle, agli odori di crêpes, al timbro caldo dei cantanti, al trombettare di una cinquecento, alle campane, ai battiti d’ali dei piccioni, ai piedi che pestano foglie d’autunno. Di tutti i quadri della città, questo è sicuramente il più vivace. Non per niente il Moulin de la Galette è a due passi da qui.
La miglior campagna di marketing della storia, ecco cos’è questa città. Così ben riuscita, da confondersi con la realtà.
Tilak è andato verso lidi turistici, un veloce abbraccio e ci vediamo presto, magari già domani.
Il calore dei funghi mi riscalda il viso, mentre una signora alla mia destra prende nota di qualcosa su un quaderno senza righe, un signore alla mia sinistra osserva semplicemente il mondo. Persone in gruppo, persone sole, brindisi, lingue, abbracci, sorrisi. “Pomme frites” da mangiare con le mani. Mi alzo sorridente, saluto il mio compagno di beatitudine, che ricambia con un sorriso d’intesa, così caldo e pieno che ne sento il calore.
Non riesco a sentirmi sola nemmeno per un attimo, qui.