Terapia d’urto

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Questa sono io, a 3 anni, che vado a comprare un giornale. Sull’outfit non avevo ancora autonomia, delego la responsabilità a mia mamma, nemmeno l’autonomia dell’andare a comprare il giornare era pienamente una mia scelta, in effetti, era un regalo di mio papà.

Mio papà è nato nel 1964, anno in cui la natalità, in Italia ha registrato il massimo storico. Dopo il 64 un declino. Un po’ prima del 64, le guerre, poco prima del 64, il boom, la rinascita appunto. E’ curioso vedere come gli eventi economici e sociali incidano immediatamente sulle nascite (qui per vederne un’analisi), sulla fiducia nel mondo, sul coraggio, sulla paura. Chissà quanto ha inciso sulla loro vita essere nati nel 64, chissà quanto ha inciso sulla nostra.

Dicevo, mio papà è nato nel 64, esattamente il 18 marzo, un giorno prima di suo nonno, del giorno di San Giuseppe, della commerciale festa del papà. 3 anni fa ero in Argentina e scrissi questo post dal titolo “Il mio Miyagi personale”, per ricordare, per celebrare, per abbracciarlo da lontano, perché avevo capito qualcosa di me. Rileggerlo ieri, a distanza di anni e chilometri, mi ha fatto stringere il cuore, sorridere e rimescolare le carte.

Già alla riga 7 mi sono fermata, ho guardato me stessa di 3 anni fa, scuotendo la testa. “Ti piacerebbe Doralice!”, mi sono detta. Perchè se è vero che: “Dopo aver combinato una grande cazzata, dopo esserti sentita quello che hai sempre rimproverato ai tuoi, apri gli occhi e finalmente pensi “cazzo, ma sono umani anche loro””, è lì che inizia la vera salita, la lotta interiore, il lavoro su sè stessi, altroche “da quel momento è tutto in discesa“. è proprio a quel punto che ti rendi conto che data la loro natura di umani erranti, non puoi pretendere, additare e colpevolizzare con la stessa facilità con cui lo facevi prima. Non riesci più a lasciarti sfiorare dalla rabbia adolescenziale, ogni mancanza diventa un problema anche tuo, è tua.

Scrivevo:
Siamo il risultato di un’educazione, una passione, un’unione di pregi e di difetti. Non siamo nessuno per cambiare chi ci sta attorno, per porci nella posizione di giudici, ma possiamo scegliere per noi. Possiamo scegliere chi vogliamo essere, quanti pregi fare nostri e quanti difetti modellare e ridimensionare.
Io, oggi, ho scelto.
Ho scelto tutti i pregi di mamma, tutti quelli di papà e tutti i miei difetti.
Oppure sono stata semplicemente baciata dalla fortuna perché oggi, alla stupida età di 22 anni, mi sento tutto il buono che c’è nei miei genitori.

Mi torna in mente D’Avenia – che per chi non lo conosce è un insegnate, scrittore e sceneggiatore – nella Ted Talk in cui parla del suo libro, L’arte di essere fragili (che potete vedere qui), poco prima della metà dice che quelle rare volte in cui i genitori dei suoi alunni vanno insieme ai colloqui, solo in quel momento, si rende conto della natura dei loro figli. Dice che i figli sono la riproduzione della relazione che c’è tra i genitori. Che questo sia vero o meno, quello che è limitatamente vero è che “possiamo scegliere chi vogliamo essere” e sicuramente era solo una mia impressione che quel giorno io avessi avuto il potere di scegliere chi ero e cosa prendere da ognuno di loro. Era una dolce superficialità sulla quale galleggiavo benissimo, una cecità incosciente che la felicità ci regala ogni tanto. Stavo scoprendo il mondo e piano piano, parallelamente, mi avvicinavo a me stessa. Ma non ero pronta ad affrontarmi, ad affrontare i fantasmi che la famiglia ti appoggia sulle spalle, inconsciamente, quelli che mi trascinavo in giro per il globo come la coperta di Linus.

Forse il discorso è molto più complesso di così e più mi addentro nei miei pensieri, più gli spunti si accavallano. Alla Doralice di 22 anni non direi proprio nulla, in realtà, la lascerei nuotare a filo d’acqua, con i suoi occhiali scuri e gli scudi alzati. Se dovessi ridefinire oggi cosa siamo, direi che siamo davvero il risultato di quel rapporto, di quella relazione, dell’educazione, dell’esempio, di ogni gesto ricevuto e di tutti quelli desiderati e mai ricevuti, delle mancanze, dei sogni disattesi e delle speranze. Siamo anche – come riesce a mostrare magistralmente Francesco Piccolo in L’Animale che mi porto dentro – il risultato di ogni altra piccola esperienza che ci ha segnati, dell’influenza di altre persone oltre ai nostri genitori. I genitori sono solo la relazione più lunga che abbiamo, quella che dura da più tempo, la prima, la più profonda, lo strato più solidificato, inevitabilmente la più impattante fin ora ed al contempo la più difficile da riportare a galla, da rimodellare. Perchè pesa, perchè è quello che fino a poco fa ci sembrava normale, inevitabile, immutabile la nostra fortuna e la nostra condanna. Forse la relazione con loro è più vecchia di quella con noi stessi. Da loro nasciamo due volte, fisicamente e concretamente. In loro ci specchiamo e da loro impariamo a riconoscerci, solo con i loro sguardi ci sentiamo vivi, in loro ci specchiamo. Sarà per questo che per il resto della vita, anche in età adulta, è quello sguardo, quel riconoscimento, che ricerchiamo costantemente?

“Qualsiasi forma di riconoscimento, quindi il premio (Strega n.d.r.) più di ogni altra, serve anche a dimostrare alle persone che non c’entrano col tuo lavoro, che nel tuo lavoro vali qualcosa.” scrive Piccolo.
“Lo sto dicendo per mio padre.” Puntualizza. Alla premiazione a Roma è andata con lui sua mamma, sua moglie, gli amici, i colleghi…
“Nei giorni successivi molti mi hanno chiesto: ma tuo padre è contento? E io ho detto: sì, molto. Ma com’è che non c’era? E io rispondevo: è venuta solo mia madre.

Mio padre non ha fatto in tempo a comprenderlo. Gliel’ho chiesto: hai capito che ho vinto il premio? E lui ha risposto sì, e lo ha fatto perché ha capito che doveva rispondere sì dall’intonazione della domanda, oppure perché a tutte le domande rispondeva sì. Ma non ne ha avuto nessuna consapevolezza, e quindi per me il premio ha avuto meno valore perché il suo cervello non ha fatto in tempo a decodificarlo – e per poco, sarebbe bastato accadesse pochi mesi prima, prima che la sua comprensione evaporasse; almeno avrebbe compreso questo, e ne sarebbe stato orgoglioso, e per me avrebbe avuto più senso, non solo il senso pratico (l’attenzione, le vendite) che poi ha avuto realmente”.

Francesco Piccolo – L’animale che mi porto dentro

Per abbracciare papà, per fargli capire che ero e sono cosciente di tutto quello che mi ha donato, consapevolmente o inconsapevolmente, seguiva un elenco corposo di chi sono, di tanti aspetti che mi piacciono della mia persona, della sua e che riconosco come un’eredità gratuita regalatami da lui.

Omettevo, per non intaccare i connotati positivi dell’elenco, di parlare della fatica.
Omettevo di dire quanto la mia estrema indipendenza possa diventare insopportabile – e me ne accorgo a volte – per chi ha piacere di condividere e mi rende difficile comprendere fino in fondo chi, al contrario, non è autonomo. Non mi soffermavo sull’incoscienza che mi porto dietro dopo quel tuffo, dell’istinto che mi porta sempre a scegliere la strada nuova rispetto alla vecchia, dei dubbi che mi attanagliano prima e pure dopo. Non parlavo della difficoltà che ho a chiedere aiuto, abituata da sempre a cavarmela come unica opzione possibile, pensando sempre di disturbare. Mai dico quanto possa essere angosciante, a volte, sentire addosso la responsabilità della puntualità. “Sono qui, sono avanti, sono andata a scuola a 4 anni, è stato facile fino ad ora, non posso sbagliare proprio adesso”. Ma chi l’ha detto che non posso sbagliare? Certamente non papà, lui che mi ha sempre incitata a capire, anche a costo di sbagliare, avvisandomi solo delle reponsabilità che mi sarei comunque dovuta prendere.
Non mi sono soffermata su quanto possa essere sgradevole avere a che fare con me, quanto possa far sentire impedite le persone che mi stanno accanto perché non hanno avuto la fortuna di fare le aiutanti di papà quando apriva la cassetta degli attrezzi. La mia faccia rimane di sasso, di stucco e di sasso quando nel mio interlocutore manca qualche conoscenza a mio avviso basilare. Quando in realtà di basilare non c’è nulla, solo gli insegnamenti che abbiamo avuto la fortuna di avere e quelli che abbiamo avuto la curiosità di prenderci.
Non conto tutte quelle volte in cui, alla domanda “di dove sei?” avrei voluto avere un posto da chiamare casa, invece di sentirmi un po’ a casa in tutti i luoghi e non esserlo mai davvero da nessuna parte.
E poi, a dirla tutta, taglio le file, supero, mi infilo con nonchalance davanti alla prima auto in coda e non rispetto i limiti di velocità, parcheggio sui marciapiedi impavida, a volte uso anche le conoscenze, sono piccolezze, ma se nessuno me lo fa notare mi sento anche furba – questo mi ferisce -, invece che disonesta.

Forse non omettevo la fatica, semplicemente non associavo le cose. O semplicemente parlavo del bello che vedo in lui, attraverso di me, per rispettare la sua riservatezza. Ed effetticamente rileggendo tutto ciò che di positivo sento di avere, constato che proporzionalmente sono numericamente pochi i risvolti negativi, anche se ci sono giorni in cui pesano tanto. Anche perchè, mica c’è solo papà. E mamma? Nonna? L’altra nonna? I nonni? E l’asilo, le elementari, medie, liceo, università, amiche, amori, colleghi, sconosciuti, passanti, panettieri?

Non ricordo precisamente quale sia stato il giorno in cui ho fatto un passo in più, quel passo arrivato solo dopo la consapevolezza della natura umana dei genitori, sicuramente so che non ci sono arrivata da sola. Quando mi sono accorta che stavo galleggiando e pure l’equilibrio era precario, ho chiesto aiuto. Non un mayday qualsiasi, ma uno di quelli che un po’ mi vergognavo a chiedere, un po’ guardavo con pregiudizio: ho iniziato ad andare in terapia. È con la mia psicologa che sono riuscita a scavare, ad andare fino alla radice, a mettere davvero in fila i miei pregi, i miei difetti, le mie paure, quelle degli altri che avevo fatto mie, i fantasmi, l’eredità. Partendo proprio da loro, da quanto della loro relazione c’è in me.

Con una lettura superficiale si potrebbe pensare che in questi 3 anni l’opinione che avevo nei confronti di mio padre sia cambiata, ma non è così. Mai, nemmeno un giorno della mia vita, ho messo in dubbio l’amore e la gratitudine nei suoi confronti, proprio per tutto l’elenco già redatto, ancora più lungo, ad oggi. Quello che ho notato invece, rileggendo quelle parole, è quanto poco conoscessi me stessa e dal momento che siamo le relazioni che abbiamo, sono partita dalla più duratura: quella con i miei genitori, per poi proseguire con quella con la mia persona, vecchia uguale.

Più il tempo passa, più la plastica affiora, assorbenti, pezzi di merda, rami secchi, tutti i rifiuti nascosti sui fondali tornano a galla, diventavano visibili ai miei occhi. Ho dato un significato oggi, a parole di decenni fa. Ho riletto situazioni con ottiche nuove e da una prospettiva totalmente diversa. Ma perché? Sentivo il peso di tutto quello che avevo preso e spostato sotto al tappeto, scaricato direttamente in mare per continuare a vivere incurante dell’accumulo di pezzi di me che nascondevo. Incurante delle emissioni di CO2 che avrei provocato, tutte in un colpo solo, andando a riprenderli nel modo sbagliato.

Ecco, con la mia psicologa, dal primo giorno, ho fatto la differenziata. Ho diviso piano piano, con i guanti, la muta e la mascherina, tutto ciò che era chiuso nei sacchetti del passato. Ed ho imparato a riciclare, ciò che non era più utilizzabile, a non comprare ciò che davvero non mi serve, a notare a colpo d’occhio i rifiuti infiammabili, quelli da portare in discarica, quelli ingombranti, da lasciare sul marciapiede la mattina, quelli da abbracciare e lasciare con malinconia e dolcezza alla caritas.

Quanto tempo ci ho messo? Non importa. Come le discariche, c’è chi mette insieme vetro ed alluminio, chi plastica ed alluminio. Ognuno ha i suoi tempi, i suoi modi, i suoi mostri, i suoi netturbini. Anzi, sono sempre più convinta che sia un percorso infinito.

Cos’è la vita, se non imparare a vivere la vita?

Achille Laurol – Marilù

Con questo non voglio dire che mi immagino netturbina a vita, ma c’è sempre un buon motivo per andare in terapia. Inizialmente ho mandato quella mail perché non sapevo a chi altro chiedere aiuto, o forse non avevo il coraggio di chiederlo, o ancora nessuno mi sembrava così competente come un professionista dell’aiutare.
Avevo paura, avevo bisogno di scongiurare l’ipotesi che anche io fossi “così”, che anche le mie sorelle fossero “così”, avevo bisogno di essere rassicurata. In quel periodo mi sentivo una bomba ad orologeria e volevo che qualcuno fermasse il ticchettio del cronometro, di cui non potevo vedere il tempo residuo, ma sapevo che a momenti avrebbe portato ad un esplosione. Non volevo esplodere, non riuscivo più ad implodere. Ho smontato l’ingranaggio e piano piano ho scelto quali fili recidere, stringendo gli occhi per la paura, come nei film.
A quel punto, mesi dopo, non avevo più la necessità di tenerli insieme i pezzi, ed il motivo per cui suonavo quel campanello è cambiato: volevo capire, comprendere, scavare ancora di più.
Poi il tempo è passato, con la vanga in mano, la mia consapevolezza è cresciuta, ho visto più chiaramente cosa mi faceva male, cosa riecheggiava dietro le ultime note di PadreMadre di Cremonini “se sono stato così lontano è stato solo per salvarmi” e sono stata bene. Così bene da iniziare a pensare a quell’ora di seduta, semplicemente, come un momento per me. Un’ora della settimana per fermarmi davvero a mettere in fila, prioritizzandole, quelle paranoie che bussavano prima di andare a dormire. Un massaggio per l’anima.
Poi è finita l’estate del cuore ed è stato tempo di capire cosa farmene di questa limitata consapevolezza, come tutelarmi e proteggermi da me stessa, dalle folate di Bora del mondo esterno, radicarmi.

E qui sono ancora, 17 mesi dopo, circa 60/65 sedute dopo. 3 anni dopo quel post, 3 anni dopo tanti altri post che ogni volta che ho occasione di rileggere mi fanno sorridere, ripensando a quanto più o meno inconsciamente anelassi di essere un giorno chi e dove sono oggi. Adesso, dopo esser stata costantemente netturbino, per un periodo artificiere nell’unità anti crisi, ma anche speleologa, infermiera, cerco di essere un atomo. O un albero. Cerco di ammirare e godere di tutte le molecole nelle quali mi trasformo quando, fermo restando il mio nucleo, elettroni e protoni si uniscono ad altri atomi, trasformandomi, senza snaturarmi. Cerco di radicarmi, per non permettere a niente ed a nessuno di succhiarmi linfa vitale, di oscurare il sole, di farmi dimenticare la natura del legame che ci unisce, ma non ci condiziona. Radicarmi, per avere in me tutta la stabilità necessaria a vivere ogni rapporto, anche quando perdo il baricentro.

Non sono sicura che questo percorso mi porterà mai ad una piena consapevolezza, perché siamo in continuo movimento, come i fiumi, panta rei, appena mi sembrerà di averla raggiunta ci sarà qualcosa di nuovo da scoprire, qualcosa che cambierà, un’alluvione. Eppure mi fa sentire bene ritrovare dei tasselli, guardarli, conservarli, comporre un puzzle tutto mio, metterli nell’ordine che preferisco. Massimizzare il numero di elementi a disposizione per scegliere, non cosa prendere da mamma o da papà, bensì cosa accettare o cambiare di me. Lavorare, sulla qualità delle relazioni con chi mi circonda, partendo sempre da me, con una sana autotutela che oggi chiamo ancora erratamente egoismo. Cercare il mio nucleo, per poter entrare con cautela nelle orbite di qualcun altro. Trovare nuovi modi per produrre energia, lavorare sul mio idrogeno, provare davvero ad essere quel cambiamento che voglio vedere nel mondo. Amare, incondizionatamente. Restare, incondizionatamente.

Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare; la forza ed il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare; e la saggezza di conoscerne la differenza.

San Francesco

Ai figli che siete, ai genitori che sarete, ai loro errori che non ripeterete. Alle relazioni che vi permetteranno di leccarvi le ferite della vostra infanzia e guarire, fenici. A chi vi starà accanto in questa convalescenza infinita, senza l’ardore di volervi aggiustare, ma con il coraggio di restare, la voglia di comprendervi, la generosità di riconoscervi la libertà di essere voi stessi.

The ultimate reason you fell in love with your mate – I’m suggesting – is not is not that your mate was young and beautiful, had an impressive job, had a “point value” equal to yours, or had a kind disposition. You fell in love because your old brain had your partner confused with your parents!
Your old brain believed that it had finally found the ideal candidate to make up for the psychological and emotional damage you experienced in childhood. […] Even if you were fortunate enough to grow up in a safe, nurturing environment, you still bear invisible scars from childhood, because from the very moment you were born you were a complex, dependent creature with a never-ending cycle of needs. Freud correctly labeled us “insatiable beings”. And no parents, no matter how devoted, are able to respond perfectly to all of these changing needs.

We are born in relationships, we are wounded in relationships and we can be healed in relationships.

Getting the love you want – Harville Hendrix

Ai figli che siamo, ai genitori che saremo, agli errori che non ripeteremo. Alle relazioni che ci permetteranno di leccarvi le ferite della nostra infanzia e guarire, fenici. A chi ci starà accanto in questa convalescenza infinita, senza l’ardore di volerci aggiustare, ma con il coraggio di restare, la voglia di comprenderci, la generosità di riconoscerci la libertà di essere noi stessi.
A chi sarò io, a chi non sarò, a chi ci sarà con me, con coraggio, comprensione e generosità.a chi mi permetterà di ricambiare con la stessa cura.

One thought on “Terapia d’urto”

  1. Quel giorno mi hai chiesto una macchina fotografica, io ti risposi che costava tanto ( e non pensavo ai soldi), ma la avresti avuta solo se avessi pubblicato le tue foto con allegata una citazione. Da quel giorno non hai piu’ smesso…. a volte basta poco per far nascere la consapevolezza che il nostro mondo resta tale se non troviamo come comunicarlo agli altri e se agli altri non vengono dati gli strumenti per comprenderci.. Quella macchina fotografica ti è costata tantissimo, ma è forse l’unico dei regali che hai chiesto, sicuramente che hai avuto. Mi avevi chiesto, senza esserne consapevole, gli occhi per leggere il mondo e per mostrarti, io ti ho chiesto di farlo nel modo piu’ difficile… Ci hai creduto e si vede…. tutti i giorni.
    Quella pesante zavorra che ti porti dietro.. tuo padre

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