Macchupichu – diario di bordo 24

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Quanta capacità di concentrazione avete? Quanto assaporate le cose? Su un autobus verso Villazon, il confine tra Bolivia ed Argentina, vi godete il paesaggio o pensate al futuro? Studiate cosa fare appena arrivati a Humahuaca, dove cercare casa a Buenos Aires o addirittura quali business lanciare una volta rientrati in Italia?
Io sono molto dispersiva, o meglio, sprazzo da un tema all’altro con estrema facilità e sicuramente mi distraggo, anche se sarebbe più poetico dire che mi lascio ispirare.
Durante questo viaggio però ci sono stati momenti che mi hanno tolto il fiato, luoghi che hanno riempito la mia vista ed occupato appieno la mia mente, senza darmi modo di pensare ad altro se non a gustarmi quello che avevo sotto ai piedi. Machupicchu è indubbiamente uno di questi.

Nell’esatto momento in cui sono caduta dal quad il primo pensiero è stato “ecco, adesso mi faccio male e rovino tutto”. Quando stava uscendo il livido avevo già deciso che me ne sarei fregata, a costo di soffrire sarei salita su quella montagna. Per fortuna a Pacchanta mi sono congelata al punto di accelerare la guarigione dei muscoli e quando il 9 era ora di pagare l’escursione, saltellavo già.
90$, due impermeabili e partenza alle 7.30 di sabato mattina. Il viaggio prevedeva 6 ore di curve fino ad hidroelectrica, diventate poi 8. Non che il problema siano state le curve, piuttosto il sali-scendi da 5000 a 2000 metri ogni mezz’ora. Il micro bus aveva 16 posti, ovviamente dietro di noi 3 italiani: Luca, Andrea, Edoardo. A lato un papà cileno, Carlos, con la figlia Natasha, altresì soprannominata vomitino, per motivi che non devo soffermarmi a spiegare.
Ho sofferto un pochino dopo 4/5 ore, quando l’altezza ha iniziato a farsi sentire e l’autista non faceva nulla per addolcire le curve. Rimedio della nonna: gambe incrociate, playlist della nanna nelle orecchie, mani sulle ginocchia con i palmi in alto, respiri profondi e pensare intensamente alla propria istruttrice di yoga, concentrarsi sul proprio corpo per rilassarlo. Niente, ha funzionato, nonostante tra una canzone e l’altra sentissi i conati di vomito della ragazzina.
Ore 15.00 pranzo a buffet prima della camminata. Teoricamente.
In realtà siamo arrivati tardi ed il buffet era già terminato, abbiamo avuto quindi il privilegio di scegliere tra spaghetti alla napoletana, milanese con patatine fritte oppure lama con verdure, in aggiunta lenticchie. Sorvolando sul fatto che in Italia sarebbero menù per bambini, ho avuto così l’opportunità di ficcare il naso nella cucina… E sarebbe stato meglio se l’avessi lasciato al suo posto, anche se il lama era veramente buono, le bustine di sapore che gli avevano buttato gentilmente sopra avevano fatto il loro dovere.
Vomitino sarebbe andata in treno, quindi il lampo di genio della faccia da culo è stato immediato, contando sulla benevolenza del padre al quale avevo già regalato un pacchetto di ritz, proviamo a sobbarcargli i nostri due zainoni, con grande successo.

Ed è da lì, da quando abbiamo lasciato la nostra coppia di zaini su quella coperta bianca a cuoricini, che è iniziata l’avventura.
Non avevamo letto quanti km sarebbero dovuti essere, gli italiani erano già partiti, avevamo un obiettivo: raggiungerli e poi raggiungere Aguas Calientes. Non potevamo perderci, dovevamo semplicemente seguire le rotaie del treno.
Attorno a noi solo natura e ancora natura, montagne dalla forma strana, un torrente con la portata di un grande fiume, altri matti a piedi, caricando zainoni, alcuni più vecchi con racchette, i giovani invece sprovveduti. Non c’è un sentierino da seguire, o paghi il treno, 32$ solo andata, oppure cammini saltellando sul legno delle rotaie, o a lato, sui ciottoli. Camminiamo, camminiamo, camminiamo e li becchiamo, si erano fermati a comprare un ghiacciolo con la forma dei popopopopolaretti, immangiabile.
Insieme riprendiamo il cammino, scoprendo che mancavano 4km di 13, eravamo arrivate praticamente.

I ragazzi sono Lodigiani, Alessia si mette a parlare con Luca, io con Edoardo. Andrea è più sulle sue. Edo mi racconta che lui è Luca hanno vissuto a Buenos Aires 2 mesi e poi hanno iniziato a viaggiare, Andrea li ha raggiunti solo in Bolivia. “A Buenos Aires siamo stati con dei nostri amici, anche loro artisti come noi”. Il suo racconto continua mentre io rimango ferma a questa frase.
Si può? Autoproclamarsi artisti intendo, si può? Non è un titolo che dovrebbero darti solo gli altri? O che si affibbia post mortem? Rimango nel dubbio, un dubbio che porterò fino in Bolivia. Per me l’arte è qualcosa di superiore, esistono certamente molte forme d’arte: dal disegno alla musica, dalla scrittura alla scultura, ma anche le parrucchiere, le stiliste, gli artigiani, praticano tutti delle arti, ma non vedete una differenza tra praticare un’arte ed essere un artista? Un pittore non è per forza un’artista, un imbianchino men che meno, un grafico? Cerco a stento di mantenere un blog, non significa che sia un’artista, men che meno avrei il coraggio di autoproclamarmi tale. Per rispetto quanto meno agli Artisti veri, a quelli riconosciuti, dagli altri, come tali.

Dopo due ore di camminata, nonostante i paesaggi pazzeschi, le grotte buie e gocciolanti, avevo gli occhi che mi andavano assieme a furia di guardare a terra, ma per fortuna si fa largo davanti a noi la tipica cafonata di scritta Macchupichu a caratteri cubitali. Siamo ad Aguas Calientes.

Sono cresciuta andando in montagna a Cervinia, per sciare, quando ormai aveva chiuso anche l’ultima discoteca ed il paese era popolato solo da vecchi scorbutici, giovani sportivi e famiglie. Nzomma, un mortorio, ma con la neve più bella del mondo. Quando sono stata per la prima volta a Courma a capodanno sono rimasta impressionata dalla vita che ci può essere in una cittadina di montagna, come una bambina ad un concerto che si chiede come ci stia tutta quella gente in una piazza.
Cusco è una splendida città di montagna, con le viuzze in pietra, i ristoranti in legno, l’aria fresca, le luci calde di notte, le montagne attorno illuminate da tante piccole casette.
Aguas Calientes anche, è un paesino tutto in salita, zona di turisti, ristoranti ed hotel, un paesino in cui le persone passano solo la notte, per poi spostarsi immediatamente, un luogo senza troppi meriti se non quello di trovarsi vicino ad una meraviglia del mondo. Eppure, anche qui, dai bar esce musica, le viuzze ripide sono piene di gente e mi piace particolarmente l’odore di montagna.

Doccia, cena veloce e nanna presto, la sveglia domani è alle 3.55, 4.00 colazione, Massimo 4.30 in cammino.

Sono le 3.55, stavo sognando qualcosa di brutto e la sveglia per fortuna lo interrompe. Nonostante Ale lo odi, salto giù dal letto come una lepre, senza dire nulla mi vesto e chiudo lo zaino, pronta per una colazione leggerina e per lasciare il malloppo nuovamente a Carlos.
Ci sono 2 modi per raggiungere Macchupichu da Aguas Calientes: a piedi, camminando 2km per poi salire circa 2000 gradini, oppure in bus per 13$. Carlos e vomitino sarebbero andati in bus e gentilmente si sono offerti ti portarci nuovamente gli zaini. Come rifiutarci.

4.30 siamo in marcia. Ho le mie fedeli Nike, doppio calzino nel caso piovesse, uno di scorta nello zaino, pantalone della tuta, canottiera, maglia termica, maglione e pile. Pioviggina quindi m’infilo il cappellino nuovo e l’impermeabile non degno di tale nome.
Il paese è addormentato, tranne un gruppetto di signori che non ha ancora smesso di festeggiare un compleanno e da ieri sera si spacca di alcol e karaoke. Per strada solo turisti, tutti ci dirigiamo verso la strada del bus. È buio, per terra fangoso, accentiamo le torce e subito si nota la differenza tra i cazzoni, i principianti e gli esagerati. Gli esagerati hanno rubato i lampioni allo stadio, i principianti hanno in testa le lucine da chimico che trovi nell’allegro chirurgo, i cazzoni usano le torcia del telefono. Ovviamente noi apparteniamo a quest’ultima categoria.
La situazione è estremamente suggestiva, tanti umani incappucciati schivano pozze illuminando il loro piccolo tratto di strada, il cielo è ancora scurissimo e se la coppia davanti a no gira l’angolo sembra di essere sole. Non che sia un peccato visto che da due giorni tale coppia ha deciso di camminare tenendosi per mano, indipendentemente dalle intemperie che possono abbattersi su quelle mani.
Dopo una buona mezz’oretta arriviamo al primo controllo biglietti, ticket e passaporto alla mano superiamo un ponticello che sarebbe bellissimo con la luce, tanto quanto è inquietante al buio. Una curva ed iniziano le scale.
Interamente in pietra, la scalinata taglia le curve che farà il bus, le taglia 9 volte, scopriremo poi.
9 rampe di scale, 2000 gradini, circa 220 gradini a rampa, un signor allenamento insomma. Se non fosse stato per i 3000 metri di altezza forse sarebbe stato meno faticoso. Partiamo arzille e saltellanti, una, due, tre rampe, l’umidità inizia a farsi sentire ed uno dopo l’altro sfilo tutti i miei strati, anche il secondo calzino, restando in canottiera. Acqua, pausa, nessuno ci corre dietro, abbiamo tempo fino alle 6.30 per arrivare su, con calma. Ma lo spirito competitivo che è in noi prevale sempre. Competizione con chi? Con noi stesse ovviamente, gli italiani ci superano e arrivederci, ma noi non dobbiamo mollare, dobbiamo sudarcela questa montagna, meritarci questa vetta.
È strano come a volte l’uomo sia autolesionista, come abbia bisogno di esserlo, come si senta in dovere di punirsi per poi premiarsi.
Sudo, sudo veramente tanto, uso la termica già sudata per asciugarmi il viso, il collo, la metto sulle spalle affinché non prenda un accidente. Lo zaino richiudibile decathlon sarà anche richiudibile, ma è un pezzo di plastica ed a contatto con la canottiera diventa fonte di ulteriori pezze.

I lodigiani ci aspettano in cima, rilassati come se li avessero portati in braccio, noi arriviamo con la gioia nel cuore ed il colore di un peperone. Troviamo la nostra guida ed entriamo, entriamo direttamente dentro la città ed è strano perché la prospettiva normale da cui siamo abituati a vedere questi resti è dall’alto, con un’immagine d’insieme ben definita, con Huayna Pichu come sfondo, il sole e le braccia di qualcuno verso il cielo. Entrare direttamente nella città invece ci permette di prestare attenzione su altri dettagli, sull’intorno. Sono le 6.30 di mattina, la nebbia è ancora bassa e fitta, la canottiera sudata si sta raffreddando appiccicandosi alla pelle, la guida inizia la spiegazione mentre io sono intenta a scovare le montagne dietro ai banchi di nuvole. Bianco e varie tonalità di verde, una leggera pioggerellina, i resti della città dietro di noi, che si fanno largo tra le nuvole, qualche lama che spunta dai terrazzamenti sottostanti e troppi gruppi di turisti, come noi, ma non importa, sono incantata.
La situazione è surreale e magica, il panorama unico nel suo genere. Le montagne attorno sono tutte molto alte e ripidissime, appuntite, tante e verdissime, nonostante ci troviamo a 3500 metri. Le nuvole corrono veloci, si alzano lentamente, verso le 9.00 dovrebbero essersi diradate, così dice la guida nonostante uno spagnolo molto maccheronico. Immagino che la sua lingua madre sia il Quequa, nonostante la corporatura esile poco consona per un peruviano. Parla, racconta, dà vita a queste mura ed è difficile immaginare la fatica di chi costruì questa città sacra, in quale modo venissero spezzate le pietre, con quanta perspicacia le rendessero antisismiche. Ci mostra stanze, bagni, scuole per ragazze future spose e scuole per ragazzi, svariati templi, del sole, della luna, delle 3 finestre. Quello delle tre finestre mi lascia un po’ attonita, è quello che di fronte ha la pietra con la famosa forma a croce andina, ci posizioniamo davanti ed inizia a raccontarci tutto il simbolismo che racchiude. Il 3 era un numero importante: 3 erano i doveri delle popolazioni inca, rispettare, amare e non essere pigri, 3 le dimensioni, 3 gli animali, condor, puma e serpente, ci traduce anche ogni termine con il linguaggio dell’epoca, esagerato. La domanda sorge spontanea: ma come le sanno queste cose? Avevano una qualche forma di scrittura? L’hanno tradotta? La guida ci mostra un libro, ci dice che tra loro comunicavano attraverso nodi, che i nodi sono stati decifrati, ma non avevano una forma di scrittura o dei geroglifici, tutto quello che si sa è stato tramandato. Di padre in figlio, come le favole, quindi potrebbe essere una gran cagata? No, ok, non esageriamo, però potrebbe essere assolutamente una verità distorta, cambiata nel tempo. Non lo sapremo mai, ma qualsiasi sia la verità, possiamo godere di ciò che rimane, tra il magico, lo spettacolare ed il misterioso.

Alla fine del tour abbiamo tempo per salire fino alla casetta da cui si può avere una vista completa della città e del panorama, altri gradini, ma a questo punto le nuvole sono praticamente sparite, il cielo è azzurro e dopo la fatica della salita si apre davanti a noi uno scenario mozzafiato. A parte ridere delle foto splendide che fanno le coreane, tutte con i loro ponchi uguali, nella stessa posizione, non posso fare altro che sedermi sull’erba, aprire un pacchettino di mais e respirare. Respirare e celebrare la bellezza delle opere dell’uomo quando s’incontrano con la natura adattandosi ad essa, inserendosi senza ucciderla, abbellendola, l’armonia.
Chiudo gli occhi, sorrido, non mi posso distrarre, non posso pensare ad altro. Vorrei che papà vedesse la vista da qui, ma sono troppi gradini, quindi gli faccio un bel video stupido. Vorrei che tutti vedessero questa vista, a 360º, senza fotografie, seduti a terra con le chiappe sporche, la maglia sudata e gli occhi zeppi di ammirazione.
In bus non avrebbe avuto lo stesso sapore, sicuramente nelle foto sarei venuta meglio, ma… Meglio sudarseli questi spettacoli, togliersi il fiato dall’inizio, prima che venga mozzato da cotanta magnificenza.
Siamo piccoli, piccoli, eppure geniali.

Rido delle pose degli altri, anche delle mie, una polaroid è di dovere, obbligo Ale a farsi una foto con me, mi sento nel punto più alto di questo viaggio e lo voglio immortalare, fermare il tempo.

Registro un audio per la radio, non posso esimermi. “Ho visto poche cose così affascinanti. La nebbia che si dirada e lascia spazio ad un paesaggio colorato, sotto ai nostri piedi, alle nostre gambe un po’ tremanti, dalla fatica e dall’emozione. Tutto il resto poco importa perché sento che in questo momento l’obiettivo del mio viaggio, di questo mio personale cammino di Santiago, è stato coronato.”

Il Perù era il mio obiettivo in questo viaggio, la meta, Macchupichu la ciliegina sulla torta. Tutto quello che verrà dopo sarà solo un di più, un fuori programma, nulla di sognato o studiato, ma potrebbe anche non esserci. Oggi, quando torneremo a Cusco, domani, quando andremo a fare volontariato con i bimbi, dopo aver camminato, patito il freddo e sudato sulle Ande, dopo aver capito cos’è l’umiltà, dopo aver vissuto in un paesino Quechua, cosa non è la povertà… qui per me potrebbe finire.
Sono soddisfatta, grata, felice, stanca, ma pochissimo importa.

Non tutti hanno la fortuna, ma soprattutto il coraggio d’intraprendere questo viaggio. Un viaggio con lo zaino in spalla, dormendo a casa di sconosciuti, con un budget assolutamente limitato. Un viaggio in cui bisogna essere disposti a cambiarsi poco, lavarsi poco, sporcarsi molto.
Sicuramente un viaggio in cui bisogna essere disposti a lasciare a casa i pregiudizi, i giudizi, i preconcetti, a resettarsi e ricominciare da zero.
Bisogna dimenticarsi di aver visto Narcos, arrivare in Colombia e capire veramente cos’è successo, senza pensare alla faccia di Pablo Escobar. Bisogna arrivare in Perù, prendere tutto quello che ti hanno sempre raccontato in oratorio, tutte le foto della OMG che hai visto, metterle in tasca ed iniziare a farti le tue idee. Bisogna ascoltare le persone che vivono adesso in un luogo, perché le cose magari sono cambiate nel corso degli anni. Bisogna riuscire ad arrivare a Cuba respirando profondamente, senza lasciarsi trascinare, senza arrabbiarsi troppo, per non diventare il nuovo Che. Bisogna arrivare in Messico ed assaggiare tutto, fare colazione con il pesce crudo, enchilarsi con troppo piccante. Bisogna passare per l’Ecuador, quando non te l’aspettavi, quando non era in programma, senza demoralizzarsi, sfruttando l’occasione, scoprendo tutto quello che mai ti saresti aspettato.
È difficile e non significa che ci si debba privare di tutto quello che siamo stati prima, di tutto quello che sapevamo, credevamo, di tutto quello che abbiamo imparato. Anzi, bisogna portare tutto a casa e fare un bel collage di vecchio e nuovo, ma soprattutto bisogna portare sempre in giro chi siamo, personalmente.
La mia italianità la tengo stretta, per esempio, ho portato ovunque l’orgoglio di essere italiana, qualche volta mi sono anche concessa una pizza… Cioè, in realtà in ogni posto abbiamo provato la pizza, sicuramente la più buona è a Cuenca, da Filippo. Però forse da un italiano non vale.
Ma perché si finisce sempre a parlare di cibo? Cosa centrava adesso? Italiani….

 

 

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