Un weekend in Ecuador: Quito e Cuenca – diario di bordo 20

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I viaggi sono persone, lo sono sempre stati per me, chiese, piazze, colori, suoni, odori, sapori, ma soprattutto persone, nulla avrebbe lo stesso sapore senza le persone.

Questo doppio step attraverso l’Ecuador è stato ricco di umanità e non c’è molto altro che possa aggiungere. Non avevamo programmato di vedere questo stato e ci abbiamo passato 3 giorni e 3 notti. C’è chi si fa un weekend a Londra e chi 3 giorni in Ecuador, normale no?
Se non avessimo perso l’aereo, se non fossimo venute in Ecuador, non avremmo conosciuto Sebastian e sua mamma, la spontaneità e la generosità di questa famiglia. Ottimo, 1 punto.
Già dalla frontiera, quando Sebastian si è offerto di darci uno strappo fino a Quito, dovevo nasarlo che sarebbe stato un posto aperto alle conoscenze. Forse perché alle 20.30 a Quito chiudono anche i ristoranti quindi o ti metti a parlare con i muri o niente, vai a dormire.
L’umanità toccata in Ecuador sa di ciabatte, ciabatte e calzini o ciabatte senza calzini, cose terribili da vedere in città, ma che da oggi mi danno un po’ meno fastidio.
Dopo svariati giri attorno alla piazza di Avenida 24 de Mayo, alla ricerca di un ostello che ormai aveva chiuso i battenti, chiediamo ad un vigile volontario d’indicarcene un altro. Sono le 21.30 e sembrano le 5 di mattina. Ci mette nelle mani di un signorotto in ciabatta e tuta usurata, dalle sembianze per nulla affidabili, capello lungo, cappello, mani sporche “ci penso io” dice. Girato l’angolo s’inginocchia di fronte ad un portone, avvicinando la bocca all’unico spiraglio, in modo da svegliare tutto il palazzo ed inizia a gridare. Apre il portone una signora scorbutica affiancata dal marito, scalzo, in mutande. Adesso, con tutti gli uomini che potrebbero aprirmi la porta in mutande, proprio un ottantenne sovrappeso molle che vive in un manicomio? Chiediamo di vedere le stanze e sì, definitivamente vivano ed affittavano a 6$ a notte le stanze di un vecchio ospedale, ma proprio vecchio, lasciato nelle perfette condizioni originali e mò di museo. In corridoio svettava la scritta “per l’acqua calda chiedere alla proprietaria” e già mi vedevo in una vasca con le infradito a travasare da un secchio l’acqua scaldata, cercando d’evitare anche di toccare la tazza. No grazie.
Demoralizzato il nostro uomo, dopo aver ricevuto una dose da un’amica che stava facendo jogging – non è un termine che utilizzerei mai nella vita, ma la sua andatura a “corsetta” è affrancabile solo ad un termine ridicolo come jogging – in una bella tutina rosa, comparsa letteralmente dal nulla al grido di “me debes una”, ci accompagna a vedere gli ostelli cari.
10$ per l’ostello più bello che abbia mai visto: Masaya Quito. Ovviamente con 3 sedi: Quito, Bogotà e la mitica Santa Marta. Il destino è la sua puntualità nananananana.
Se non avessimo perso l’aereo, se non fossimo venute in Ecuador, non avrei mai visto quest’ostello, non mi sarebbero mai venute tutte le idee che invece ho su come rivalutare la casa di Casale. Ottimo. 2 punti.
Dopo una nottata in bus qualsiasi letto sembra splendido, ma questo lo è particolarmente, contando che è il 22esimo che cambiamo in 2 mesi, escludendo gli autobus, posso dire di averne provati parecchi.
Mentre compiliamo finalmente i moduli per il voto dall’estero, una muso sorridente s’infila sotto la scala: “buenos dias, vienen a desayunar?”. Stuart, età indefinita, con il cappello 25, senza decisamente qualcuno in più. E’ la seconda volta che mi succede in due giorni, raga non vi stressate, ma soprattutto non mettete i cappelli perché l’effetto è peggio del con/senza make up, che infarto.
Comunque, Stuart, sulla 30ina, si presenta in leggins, pantaloncini, maglione di lanetta natalizio e sandalo con calza. Nell’attesa si rende conto che per fare colazione con due italiane forse sarebbe stato meglio cambiarsi. Mette un pantalone beige e ripropone il calzino+sandalo, fedele ed imperterrito.
Stuart è di Londra, è cresciuto, ha studiato e lavorato a Londra, finché non è lasciato con la sua ultima fidanzata rendendosi conto che quello studio di architetti e quella città non facevano più per lui, che gli toglievano il fiato, che non lasciavano spazio alla vita. E’ andato in Australia a lavorare in una serra, poi in Sicilia a supportare l’accoglienza degli immigrati, è stato qui in Ecuador 5 mesi ad insegnare inglese a 10 classi di 36 bambini l’una in un paesino verso la costa. L’Australia gli è piaciuta tanto, infatti ci tornerà a breve, questa volta come architetto, unica pecca: “la gente beve troppo, non è il mio stile di viaggio quello da sbronzo”. Buono.
In Italia invece è stato la prima volta per un progetto con l’università, dovevano disegnare delle case multifunzionali che un giorno potevano servire come camere da letto ed il giorno dopo come sala riunioni. E’ rimasto colpito da tutte quelle persone e dall’attività di un parroco in particolare che ha poi contattato per tornare e dare una mano. E’ rimasto deluso. Ha potuto percepire la curruzione, il poco interesse nei confronti delle persone, la grande attenzione solo nei confronti dei fondi che arrivano dall’Unione Europea. Appunta anche un livello scarso di pulizia delle strade, di raccolta dei rifiuti, completamente diverso dal nord Italia. Che figuracce cazzo. Peccato che al fratello non sia dispiaciuto così tanto, ha sposato Annunziata e hanno avuto pure due bimbi, oltre a lavorare insieme per l’impresa manifatturiera di cravatte della famiglia di lei.
Parla in maniera piatta, accenna sorrisi, si vede che alla base c’è una bella freddezza inglese riscaldata dal tempo passato all’estero, ma l’inclinazione della schiena che gli viene naturale quando ti saluta, invece di avvicinare chiappe e petto al tuo corpo, è emblematica. Continua a raccontarci delle sue esperienze e lo fa con un tono costante, particolare, quando ci dice che era stato fortunato a lavorare con i fiori in Australia lo fa con lo stesso tono con cui si lamenta dei rifiuti.
Qui in Ecuador invece l’ha colpito l’umiltà delle persone, la famigliarità dei contesti. Effettivamente anche pranzando al ristorante sembra di mangiare nella cucina di una famiglia, stai letterlamente mangiando nella cucina della casa di una famiglia, semplicemente affaccia sulla via.
Passeggiamo con lui ed i sui sandali per le viuzze del centro storico di Quito, entriamo nelle splendide chiese dorate, ci scottiamo finché non è ora di tornare a prendere il bus successivo.
Se non avessimo perso l’aereo, se non fossimo venute in Ecuador, non avrei mai conosciuto questo ragazzo non più ragazzo. Ottimo. 3 punti.
Che nottata di merda. Arriviamo presto a Cuenca, ci cambiamo nei bagni della stazione dei bus, lasciamo gli zaini al deposito, compriamo i biglietti per il Perù e andiamo a visitare la cittadina più carina dell’Ecuador. Effettivamente è vero, il centro è davvero molto coloniale, le case hanno i sottotetti decorati in legno ed i soffitti in lamine pitturate a mano che sembrano piastrelle, tutte colorate. Siamo a 2500 metri di altitudine in pantaloncini corti, mi manca il fiato, ma ho caldo ed è sempre una cosa che mi lascia attonita del Sud America, era così in Messico, in Colombia ed è così anche qui. Per noi italiani 2500 significa tuta da sci e Moon Boot, qui sandali.
Girovagando alla scoperta delle 21 chiese del centro della città entriamo in un patio totalmente in legno, affascinante da morire, attaccato alla cattedrale nuova. Un nome italiano svetta al secondo piano: Filippo, pizzeria italiana.
Saliamo e Filippo è seduto su un tavolino di legno, gli altri tutti vuoti, effettivamente è presto. Non possiamo valutare le pizze, ma a colpo d’occhio vediamo un forno a legna e questo può bastare. “Ci vediamo a cena, Filippo!”.
Continuiamo la nostra passeggiata casuale tra vicoletti e mercatini, cappelli e chiese, baretti vegan e centri estetici. E macchine.
Ci saltano all’occhio due macchine d’epoca piene di adesivi, il nuovo Carlos. La prima una vecchia Dodge, la seconda una Cinquecentina da cui spunta un ragazzo argentino. Biondo, occhi azzurri, infradito. Ci racconta che sta viaggiando da 5 anni, ma precisamente da 1 e 2 mesi ha iniziato quest’avventura insieme ad un’amica e altre 3 coppie, in totale 4 macchine d’epoca “perché se possiamo girare il mondo con queste auto tutti possono farlo”, è questo il messaggio che vogliono lanciare. (Follow them on FB: Pasajeros del infinito)
Curano pagine facebook, lui anche una rubrica per Sony, ha vinto vari premi fotografici e varie macchine fotografiche, il cui merito attribuisce al destino, al karma, alle onde positive. “Perché se hai bisogno qualcosa e non stai fermo e non demordi, la vita te lo fa trovare sotto al naso”. Bisogna avere anche una buona dose di culo, o no? Sembra tutto facile.
E’ ora d’iniziare l’elenco dei consigli che vi regalerò alla fine di questo viaggio, ho comprato un quadernino, posso annotare tutti i vari “la prossima volta…” così potrete scegliere volontariamente di cadere nei miei stessi errori (od orrori) o evitarli.
E’ ora di cena, finalmente! Ripassiamo dalle signore che vendevano i conetti alla crema, che ricordano lontanamente dei cannoncini, compriamo il dolce e torniamo da Filippo.
Sta cenando con un’amica, ci vede “bentornate!” si scusa, rigorosamente in italiano e si alza per prepararci la pizza, senza neanche chiedere, una margherita per due, che avrei mangiato tranquillamente da sola.
Filippo ha quell’attitudine che vorrei vedere in mio marito, con qualche chilo di troppo.
Di Sorrento, pancione, risata sempre sul viso, non si sforza minimamente di parlare spagnolo, non ne ha bisogno, tutti i suoi dipendenti – rigorosamente donne – lo capiscono benissimo. Ha la faccia e l’attitudine del boss.
Senza peli sulla lingua ride come un matto quando gli diciamo che stiamo vivendo a Buenos Aires: “io sono stato in galera due volte: una a Buenos Aires, ai tempi, quando non potevi nemmeno respirare senza essere additato, ero seduto in un bar e niente, finché non è stato possibile contattare un’ambasciata ho provato il letto. L’altra invece in Israele, ero in barca per i fatti miei, ho avuto un problema al motore, mi sono messo a ripararlo e a quanto pare la corrente mi portò in acque non navigabili dai comuni mortali.” Ride, in assoluta serenità ed io sono affascinata. Sarà perché con questa pelatina mi ricorda Reddington. Noto una fede al dito, non se la toglie per cucinare, non toglie nemmeno l’orologio, stende la pasta, preparata con la farina che gli porta dall’Italia un conoscente “le farine qui non sono farine”, lo sappiamo bene noi che viviamo in Argentina e la pizza è una suola. Immerge la mano nella pummarola, che importa personalmente da Napoli, la schizza sulla pasta, la spalma, sento il profumo fino a qui. “La mozzarella la faccio io, il parmigiano pure”. La fa lui, ha tagliato la testa al toro.
Una signora inglese entra e la compra, direttamente. Ah signora quanto la invidio, in autobus non si conserverebbe bene.
Appoggia dolcemente la mozzarella e con un movimento da maestro, con tutta l’esperienza del caso, la inforna. Non è rotonda, è rettangolare, si è dovuto adattare un po’ alle abitudini di condivisione che hanno qui, ma poco importa, ricorda quella della Marechiaro.
Fumante la poggia su una teglia di legno ed ecco servita, la pizza più buona del Sud America.
“Cosa ci fai a Cuenca?” “E’ il posto più bello dell’Ecuador, sto cercando di vendere una casa da 6 anni e forse ci sto riuscendo solo ora, ma torno a Napoli ogni due mesi, cosa ci sto a fare qui? Cosa ci fate voi qui?” Sminuisce questi posti, non ci consiglia di stare più di 1 o 2 giorni a Lima, ride, con la spocchia e la superbia che solo un italiano può avere. E’ vero, l’Italia è il paese più bello del mondo, compararlo con qualsiasi altro luogo è impossibile e a volte ridicolo. Lo penso dal primo all’ultimo morso, mentre mi si scioglie la pizza in bocca, con annessa una goduria immensa. Morso dopo morso, mangio anche la crosta, il bordo, il cornicione, come cazzo volete chiamarlo, mangerei anche il tagliere se potessi.
Così dev’essere il mio uomo, come un morso di pizza semi italiana dopo 7 mesi di pizze di merda. Da far girare gli occhi, la testa, da chiedere il bis anche d’asporto, da sporcarti le orecchie, le mani, i pantaloni.
Se non avessimo perso l’aereo, se non fossimo venute in Ecuador, non avrei mai conosciuto Filippo, non avremmo mai mangiato questa pizza, non ci saremmo mai sentite a casa a 10’000km da casa. Ottimo. Direi 5 punti.
Ah, il conto: 10 dollari, “giusto le materie prime”. 6 punti Grifondoro.
Ciao Filippo, grazie, andiamo in Perù, ma ti portiamo nel cuore e ti consiglieremo anche oltreoceano. Ci vediamo a Napoli, che è meglio.

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